Yoga Sutra, II, 01

CAPITOLO II


 1° AFORISMA
KRIYA YOGA

II. 1        tapaḥ svādhyāye īśvara praṇidhānāni kriyā yogaḥ

L’accensione del fuoco psichico interiore che immediatamente brucia via tutte le impurità (coloriture) e le limitazioni della sostanza mentale, lo studio, sia delle scritture sia delle proprie reazioni alle situazioni di momento in momento, e la significante, dinamica e devota resa all’onnipresenza che dimora dentro – questi tre simultaneamente costituiscono lo yoga attivo, o pratica dell’unità indivisibile.

Kriyā significa azione (kriyā e karma sono sinonimi) – perciò Kriyā Yoga significa yoga nell’azione, o fare. E’ una debolezza generale, dopo aver ascoltato l’esposizione della conoscenza contenuta nel primo capitolo, dire: “Ho capito tutto questo, ora che debbo fare?” Se fate questa domanda vuol dire che non avete capito correttamente, avete solo udito le parole. Quando le parole non sono più tali – vŗtti – ma sono state assimilate, queste parole sono diventate carne. Se questo non avviene: o non sono state ascoltate bene o sono state conservate come parole non assimilate; solo allora c’è apprensione riguardo a quello che è stato ingerito. Per esempio, se hai un’indigestione, il cibo che hai mangiato ti rimane come una pietra nello stomaco e ti crea ansia, ma non succede quando è digerito e assimilato.
Per quanto strano possa sembrare, quello stesso cibo che è stato assimilato chiede altro cibo. C’è una splendida affermazione in una delle upanishad: “Il cibo è ciò che viene mangiato ed è esso stesso che mangia”. Similmente, questa conoscenza se è stata correttamente ascoltata e assimilata, crea la propria sete e riceve nuova conoscenza.
Il Kriyā Yoga è la risposta all’ansiosa domanda, “Che cosa devo fare adesso?” Ci facciamo questa domanda solo quando si tratta della comprensione dello yoga, dell’auto-conoscenza, di Dio, della religione, ecc. Se invece, per esempio, ti trovi in mezzo ad una strada trafficata, il semaforo diventa verde e le macchine cominciano a invadere la strada, non ti chiedi, “Che devo fare?”. Se la comprensione è stata reale, essa stessa agisce; quando la verità è assimilata, le parole diventano carne. L’intero essere è la verità e sa come agire.
Lo yoga non è qualcosa che si fa, ma che deve accadere, eppure l’espressione ‘Kriyā Yoga’ viene usata qui. Kriyā Yoga è di per sé yoga – non è altro che yoga, espresso in altre parole. E’ composta di tre pratiche.
La prima è tapas – disciplina o stile di vita o atteggiamento verso la vita – che sembra essere un soggetto fondamentale, perciò è messo in evidenza due volte, sia come uno dei cinque componenti di niyama, sia come la prima delle pratiche di Kriyā Yoga, ed è anche descritto in maniera accurata nella Bhagavad Gītā ed in altre scritture.
Guardiamone prima il significato letterale. Il linguaggio è sottoposto a enormi cambiamenti; si associa una parola a un certo spirito e si esprime quello spirito con una parola – poi la parola ha il sopravvento. Perciò diventa necessario conoscere il significato verbale letterale (non solo la parola e il significato). Se si persegue quest’inchiesta, anche per voi diventa possibile vedere lo spirito della parola, e anche la sua degenerazione.

Tapas
Tapas significa austerità e anche bruciare. Che significa bruciare? Per gli asceti in India, l’austerità si effettua sedendosi sotto il sole circondati da quattro fuochi. Lo spirito della parola tapas non è solo di accendere un fuoco in ogni direzione e sedersi sotto il sole cocente, anche se questa è stata accettata come una delle forme di tapas. Vi sono altri modi di bruciare, per esempio, se t’immergi nell’acqua gelida, tutto il corpo sembra bruciare, ma solo per poco tempo. C’era un giovane in Imalaya che non aveva piegato le ginocchia per dieci anni, aveva una specie di stampella, che gli arrivava quasi fino al mento, con una fascia di tela. Dormiva così – tenendo solo le braccia fuori di quella tela; qualsiasi cosa doveva fare la faceva in piedi. Le gambe gli erano diventate come zampe di elefante: devono aver causato un bruciore intenso per mesi.
Questa specie di tapas s’incontra anche fuori dell’India. C’è una cattedrale a Montreal, in Canada, con una scalinata di cui una piccola porzione centrale è in legno. I devoti fanno il voto di percorrere questi gradini di legno in ginocchio, fino ad avere le ginocchia coperte di lividi e infiammate.
Vi sono altre pratiche che producono bruciore: quando digiunate vi brucia lo stomaco, quando non dormite gli occhi cominciano a bruciare. Ogni forma di bruciore è tapas - finché brucia siete al sicuro. Queste sono alcune delle forme di tapas: anche se spiritualmente possono essere o non essere valide, non c’è alcuna obiezione verso di esse.
Che cosa succede dentro di voi, quando c’è un forte bruciore fisico? Siete capaci di estenderlo oltre il fisico? Estendere non è la parola giusta; ce n’è un’altra che forse dà un significato più chiaro – “intendere”, interiorizzare – che cioè tende a entrare sempre più profondamente dentro di voi, con lo scopo di bruciare o creare bruciore psicologico. Cercate d’intendere in quello spirito. Potete far penetrare questo bruciore dentro di voi in modo che coinvolga la mente? O vi fermate solo al bruciore fisiologico?
Il corpo è così resistente che ci vogliono solo tre settimane perchè si abitui a qualsiasi condizione; così, quando lo assoggettate al tipo di tapas o tortura che crea bruciore, dopo un po’ anche quello diventa gradevole e perde il suo scopo iniziale. L’intenzione originale può essere soddisfatta se siete abbastanza saggi e intelligenti da intendere il bruciore fisico prima che scompaia e scoprire che c’è un bruciore più reale, quello psicologico.
Quando qualcuno ride di voi, v’insulta o vi manca di rispetto, fa male, brucia dentro e finché prestate attenzione a quest’aspetto, l’inchiesta rimane viva. Se siete sensibili, deve far male. Allora sì che ‘intendete’ questo tapas, vedete che siete feriti dentro e mantenete fermamente a fuoco l’attenzione su quello, finché non sapete che cos’è che viene ferito. Allora raggiungete uno stadio in cui siete perpetuamente feriti, eppure mai feriti!
Una persona v’insulta: come insulto vi fa male giusto per qualche secondo ma, appena l’attenzione è messa a fuoco dentro, la classificazione di questo evento come insulto scompare.
Allo stesso modo, quando con calma dite “No” a un desiderio o a un’abitudine quando sorge, la mente va in tumulto e tutto il vostro essere s’infiamma; non ne godete, non ne soffrite: ci siete dentro.
Ogni volta che lo stesso desiderio si fa avanti, uno continua a osservarlo in quella maniera:
“Dove sta sorgendo? Che cos’è?
 Cos’è che mi spinge a volerlo fare ancora?”.
Finché, dopo un certo tempo, questo problema particolare si dissolve; è stato ‘bruciato’ via!
Tapas è bruciare l’ego
Qualsiasi attività o pratica che bruci il falso senso dell’ego è tapas; uno dei più importanti modi in cui l’idea dell’individualità si manifesta è il sentimento “Io sono questo corpo”.
I religiosi molto osservanti suggerirono che qualsiasi cosa torturi o mortifichi il corpo, fosse buona ma, questi mezzi non funzionano, perché state punendo solo il corpo. L’idea del sé, l’idea che “Io sono questo corpo”, persiste ancora e infatti, dopo tutte queste pratiche meravigliose direte: “Guardate, cosa ho fatto!” L’ego ne esce rafforzato mentre, se si pratica qualcosa che attacchi direttamente l’idea che voi siete il corpo, quello può essere utile.
Che tipo di pratica dovreste adottare in modo che la falsa idea che voi siete il corpo possa essere rimossa?
Quando siete insultati, è l’idea che voi siete questo corpo ad essere insultata. Quando siete feriti perché qualcuno vi ha colpito, è il corpo ad essere ferito. Perciò è possibile lavorare su quell’area che si sente ferita dall’insulto o dal colpo ricevuto, in modo da poter superare la falsa identificazione. Questa è una bellissima forma di meditazione e può fornirci la chiave per risolvere la maggior parte dei nostri problemi. Per esempio, qualcuno ti chiama ‘stupido’. Stupido è una parola e quella è la sua opinione, ma quando la senti stai male, cioè senti quasi un dolore fisico; cos’ha a che fare quell’avvenimento con il dolore fisico che provi? Non ci siamo mai chiesti questa domanda, perciò continuiamo a soffrire di questo tipo di dolore in un milione di modi nella nostra vita. Se invece le dedichiamo un po’ di tempo, una sola volta, scomparirà per sempre. Cos’è questo dolore e di cos’è fatto? Dove sorge? Non chiedere: “Perché sorge”, altrimenti sei tentato a dare la colpa ad altri o a concludere che sei una persona molto sensibile. Queste cose non ti sono d’aiuto.
Qualcuno dice una parola e tu ti senti colpito fisicamente. Se contempli questo fatto davvero seriamente e sinceramente, giungi a questa semplice e straordinaria realizzazione: quella persona si riferiva ad un nulla e quel nulla si è innervosito. C’è un’idea: “Io sono questo corpo, io sono tal dei tali”, e quell’idea viene colpita. Ecco tutto.
Tapas e la coloritura mentale
Tapas, comunque, si riferisce anche alla grande energia richiesta per scoprire la coloritura della mente. Il fattore più importante è la distruzione della coloritura della sostanza mentale che dà tutti i giudizi e le valutazioni. Cos’è che è colorato? Cos’è che fa tutte le valutazioni? Ciò che c’interessa è trovare l’agente colorante che dà valore alle cose che ci attraggono o ci ripugnano. Senza condannare o giustificare quel colorante mentale, lo osservi, lo scopri – eliminando così la coloritura dalla comprensione. Invece di sopprimerla artificialmente, la fai venire a galla in modo da poterla osservare e trattare con essa. Venendo faccia a faccia con l’abitudine (o pensiero o desiderio dell’ego) essa si dissolve. Il velo è stato rimosso. La sostanza mentale è stata decolorata, purificata.
Tapas è l’illuminazione
Tapas è il tumulto interiore, l’energia del bruciare. Tapas è il fuoco che brucia costantemente – la Luce che osserva, purifica, illumina e che nel corso del tempo diventa essa stessa l’illuminazione.

Swādhyāya
La seconda pratica è swādhyāya – lo studio. E’ possibile che scopriamo a volte di essere sulla strada sbagliata e a volte di stare ingannando noi stessi o fingendo di star facendo una grande sādhāna o pratica spirituale. Queste illusioni possono essere evitate con uno studio regolare e sistematico di testi spiritualmente elevanti, quali che essi siano. E’ anche possibile che, se vi sono campi ancora oscuri, questi possano essere illuminati dal corretto studio delle scritture. A volte però, può capitare che interpretiamo male un principio, allora dobbiamo stare attenti, perché quel fraintendimento, se viene accettato da noi come giusta conoscenza, può continuare all’infinito.
Swādhyāya si riferisce anche alla pratica di japa o ripetizione del mantra e a indagare sulle proprie reazioni alle situazioni, di momento in momento, su ogni cosa che rivolge la mente su se stessa. Quando ti rendi conto che c’è stato un fraintendimento, hai compreso te stesso; una volta che scopri, ascoltando una conferenza o leggendo un libro, che hai una visione distorta della verità, da quel momento in poi presti più cura e attenzione alla possibilità di un’incomprensione: lo Yoga è già accaduto.

Iśvara praņidhāna                               
La terza pratica è Iśvara praņidhāna – resa dinamica al Dio onnipresente. Non è una resa passiva – “Oh… Dio si occuperà di tutto” – ma resa dinamica. Questa disciplina è citata tre volte negli Yoga Sūtra, per farci capire che la conoscenza del Sé non è il risultato finale di una serie di azioni (essendo le azioni, operazioni dell’ego), ma avviene quando l’ego ha cessato le sue attività.
Iśvara praņidhāna è la resa totale del senso dell’ego, non dell’ego stesso; l’ego fa parte degli avvenimenti del mondo. Il corpo continuerà a vivere, anche se sei il Buddha in persona, ma non avrai il sentimento di essere un peccatore, né l’opinione di essere grandioso. La tua valutazione di te stesso, il rammarico e il rimorso sono andati via allora uno è felice, o meglio, uno è la felicità!
L’io stesso non è altro che un simulacro dell’immaginazione della totalità, della coscienza cosmica. Qual è la natura di quella coscienza? Qual è la natura della personalità che è consapevole di questa verità? Se ci fosse la consapevolezza costante che, come un’onda è nell’oceano, l’io è nella coscienza, solo concettualmente in grado di essere isolata dal resto dell’oceano ma non nella realtà, quale sarebbe la tua vita ed il tuo comportamento? Quella è la resa a Dio o Iśvara praņidhāna.
Yoga non è accettare qualcosa che un altro ti dice; se qualcuno dice, “Sai, tu devi arrendere te stesso a Dio”, mettilo in dubbio. In quella piccola frase vi sono quattro cose che non comprendi: tu, arrendere, te stesso e Dio. Chi è quel tu? Cos’è te stesso? Come puoi tirare te stesso fuori di te e darlo a Dio? Dov’è Dio? Se Dio è già in te, come ti arrendi?
Allora, se quando senti questa piccola espressione, non l’accetti ciecamente né immagini di averla compresa, cosa fai? Come studente di yoga intelligente, sincero e assiduo, cominci subito a studiare quest’affermazione, cercando di capire cosa vuol dire. Chi è Dio, e come ti arrendi a Dio? Già mentre queste domande vengono fatte c’è un’illuminazione, una comprensione interiore, quella è Yoga!
La resa a Dio non può essere spiegata ma possiamo averne delle indicazioni e questo può accadere in diversi modi; un modo è rendersi conto che tutto è Dio – quello che è chiamato sacro e quello che sembra profano. Un giorno, continuando a farti domande sull’esistenza, realizzerai:
“Io sono, ma non sono mio, il corpo esiste - non è mio, il mondo esiste - non è mio”.
Comprendi che questo Dio che è onnipresente – nell’uno e nel tutto e che pervade l’intera creazione – include anche te stesso. E’ Dio che agisce anche attraverso questo corpo, così come funziona attraverso tutti i corpi - non c’è altro che il divino ma, non pensare che Dio si manifesti in maniera particolare nel tuo cuore solo quando il tuo umore è alle stelle: anche quando sei insonnolito e pigro, Dio è manifesto in te. Dio è sempre lì, ma non in quegli stati d’animo, perché Dio non è confinato a nulla. Tu non sei esente dall’onnipresenza – ma non come individuo, perché l’io si è dissolto. Allora in ogni momento ti arrendi, qualunque cosa succeda ti arrendi – ti arrendi nel senso che non c’è alcuna idea di “mio”.
Arrendersi non deve far diventare Dio come una sorta di poliziotto armato; non è questo che s’intende per resa. Praņidhāna è una resa non passiva, ma dinamica; in tale resa l’io non dice: “Va bene, mi sono arreso a Dio, ora che si occupi lui di me e di tutto ciò che è mio”.
Torniamo all’analogia dell’oceano: quell’onda dell’oceano è una con l’oceano, e la totalità dell’oceano decide cosa farà. Può essere in alto mare o la cresta di un’onda, o può essere sbattuta contro uno scoglio. Sembra doloroso solo se tu vuoi sentire: “Io sono indipendente dalla totalità e la totalità deve esaudire le mie preghiere” ma questo vuol dire che non c’è resa.
Quando Patanjali suggerisce che la conoscenza del Sé, la totale eliminazione dell’ignoranza di sé – può essere ottenuta con la resa a Dio, non sta suggerendo una tecnica; la resa totale (che è solo la resa dell’ignoranza) non forma una tecnica, ma è una delle discipline vitali.
La resa a Dio non è qualcosa sulla quale puoi dire: “Mi sono arreso a Dio, quando avrò la mia prossima tazza di caffè?” Non significa neanche che dopo la resa non berrai più il caffè! Il corpo vuole il caffè e avrà il caffè, ma il senso dell’ego si è dissolto.
La resa avviene anche quando il fuoco dell’inchiesta brucia attraverso tutti gli elementi dell’individualità e attraverso tutte le sue attività. Le tre domande
“Cosa c’è dietro i sensi, la mente e il sé?”
“E’ l’osservatore differente dall’osservato?”
“E’ l’io indipendente dalla totalità?”
bruciano senza una risposta, perché non c’è nessuno, (nessun sé) che può udire la risposta! Incapace di trovare la risposta, il sé cade nella resa. L’osservatore è l’osservazione – pura consapevolezza. Il conoscitore è il conosciuto – pura conoscenza. C’è libertà totale, kaivalya. Uno solo è, come tutt’uno.
In queste tre discipline – tapas, svādhyāya e īśvara praṇidhānā, c’è lo spirito dello yoga: non è lo yoga dell’azione nel senso di fare un’azione e dimenticare tutto ciò che la concerne. In tapas c’è yoga, una totale auto-conoscenza; in svādhyāya o studio di sé, c’è auto-conoscenza, e in īśvara praņidhānā o resa a Dio, c’è auto-conoscenza.
Il Kriyā Yoga è praticato per rimuovere gli ostacoli psicologici in modo da predisporsi al samādhi ma non è detto che queste azioni di per sé producano il samādhi. Il samādhi è quello che è - e non il risultato di alcuna attività.