Buona lettura!



A Parigi, Marzo 1982
Seminario: "E' Vero questo Io? ..."

Yoga Sutra II. 46-48 - LA POSTURA

II. 46, sthira sukham āsanaṁ

"La postura del corpo durante la pratica della contemplazione e in altri momenti, così come la posizione della mente (o l'atteggiamento verso la vita) dev'essere stabile e gradevole."


    Il significato di āsana è postura; questo Sūtra definisce la postura come stabile e piacevole; ora, che si tratti di una posizione fisica, di un atteggiamento psicologico o di uno stato emozionale, dev'esserci stabilità, gioia, felicità e piacere in ognuno di questi campi!

    Perché viene prescritta questa sthira sukham āsanaṁ? Perché Patanjali aveva affermato in un altro Sūtra:
    "L'instabilità del corpo o delle sue membra è indice dell'instabilità della mente".
    Perciò, se porti fermezza nel corpo, hai più probabilità di essere capace di diventare consapevole del movimento di energia nella mente.


Patanjali ci dà tre suggerimenti:

   1. Che la pratica sia moderata e regolare. Non devi né abbandonare la pratica né esagerare; questo è importante non solo nel caso delle āsana e del prāṇāyāma, ma anche della meditazione - anzi di ogni cosa. Alcuni yogi moderni partono con un entusiasmo eccessivo e poi abbandonano la pratica: questo mostra che il motivo stesso era sbagliato. Se puoi stare seduto o mantenere una posizione per poco tempo adesso, aumenta solo gradualmente la durata: se l'aumenti improvvisamente, potresti avere problemi alle ginocchia o altre parti del corpo e poi dovrai smettere per un po'!

    2. La meditazione stessa ti dà la stabilità della posizione: se sei capace di sederti stabilmente, ti concentri più facilmente, se la tua mente è concentrata puoi stare più fermo mentre sei seduto!
    3. In India c'è la convinzione che, se mediti su una tartaruga, una montagna o altri oggetti immobili e visualizzi quella fermezza nel tuo corpo, questo ti aiuta nella stabilità della postura. Le āsana non sono solo posizioni fisiche: la mente dev'essere presente, perché è la mente che dà la forza; l'energia è sempre presente ed è la mente che la rende utilizzabile.
    Una volta che hai padroneggiato questa postura di meditazione, la mente o l'attenzione fluisce in un'unica direzione, c'è una forte energia e la tua attenzione non si distrae facilmente.
    Hai bisogno di una postura stabile per poter guardare dentro, per osservare direttamente l'insorgere del senso dell'ego, per capire chi è il soggetto dell'osservazione o dell'esperienza. Sei intrappolato nell'illusione dell'esistenza di un soggetto dell'esperienza: ora devi confrontarti direttamente con questo che hai considerato autore o soggetto in modo che, alla luce dell'osservazione, quel soggetto sparisca.
    In genere si ritiene che le āsana del Raja Yoga siano diverse da quelle dello Hatha Yogala caratteristica della mente è proprio quella di dividere ma è possibile vedere che invece non sono differenti.
    Secondo i commentatori classici, qui per āsana s'intendono solo alcune posture nelle quali il corpo è seduto in uno stato d'immobilità, senza scomodità o disagio, e che non ci sia riferimento alle altre posture come  sarvaṅgāsana o posizione sulle spalle, sirṣāsana o posizione sulla testa, ecc.: io sento invece che questo Sūtra copra anche quelle posture: è essenziale mentre pratichi tutte le posizioni yoga, che tu le mantenga in maniera stabile per un po' di tempo e che non le pratichi come esercizi ginnici.
    Ogni āsana è una posizione inusuale e, quando poni il corpo in una posizione inusuale c'è ovviamente della scomodità all'inizio, oppure tendi a perdere l'equilibrio; se però osservi quello che accade, vedi che in quel momento c'è un'incredibile attività interiore: l'equilibrio viene ricreato e anche la scomodità iniziale va via! Quindi, in poco tempo, quella postura diventa sempre più gradevole e stabile. Qui stai davvero scoprendo che c'è un'intelligenza al di là dell'ego, perché l'ego di per sé non è capace di riportare l'equilibrio. Se pratichi attentamente una difficile postura di equilibrio, scopri che tutto il tuo corpo è  attivo e molto sveglio; questo non avviene se pratichi meccanicamente o con violenza.
    Presto diventi capace di mantenere quella postura per un tempo più lungo e scopri due cose ancora più belle: primo, che non puoi farti male; occorre un alto grado di idiozia per farsi male! Secondo: che i poteri dell'intelligenza interiore sono meravigliosi; quando mantieni  una posizione per un po', l'intelligenza interiore entra in azione riportando l'equilibrio e la confortevolezza; di momento in momento essa lavora, calcolando, più rapidamente di qualsiasi computer, il riallineamento e la compensazione.
    Quest'intelligenza funziona come una sola unità, un'unità indivisibile: lo yogi vede questo nella pratica delle āsana.


    Gli scopi interiori delle āsana sono molteplici; uno può essere la scoperta dell'intelligenza dietro il "me" ma questa pratica promuove anche la tranquillità e la pace mentale e quella che è chiamata salute psicofisica. Quando il corpo è in uno stato di salute, anche la mente è in armonia e puoi servire l'umanità molto meglio o, almeno, non sei di peso a nessuno. Alcuni yogi in India ritengono che chi pratica le āsana per star bene sia un egoista: rendiamoci conto invece, che star bene è di per sé un grande servigio all'umanità; uno che è malato richiede l'attenzione di mezza dozzina di persone; perciò, risparmiando quell'incompensa ad altri, stai già facendo un opera di bene.

    Con il termine āsana  s'intende anche un posto a sedere o un tappetino. Padmāsana (padma è il fior di loto) può significare la classica postura a gambe incrociate a fior di loto ma anche "la postura del fior di loto"Lo yogi vive nel mondo come il fior di loto nell'acqua, senza esserne toccato o contaminato - e non solo: il loto viene fuori dal fango eppure è tra i fiori più belli. Questo può significare: non dar retta allo psicanalista, non preoccuparti della tua provenienza o di quello che ti è successo nell'infanzia o in una precedente incarnazione; tutto quello può essere fango ma tu sei un fiore di loto! Non continuare ad avere rimorsi del passato e non incolpare gli altri di quello che è successo. Realizza quello che sei ora - un loto. Anche questo stato interiore può essere la posizione del loto.
 Dunque āsana può significare posizione della mente, posizione psicologica e posizione emozionale, bisogna tener presente tutto questo e non attaccarsi ad una certa definizione o descrizione pensando che sia tutto lì. E' anche possibile vederci una lezione fondamentale nella tua vita e cioè: a meno che  la tua mente, le tue emozioni e il tuo atteggiamento verso la vita non siano solidi, ben radicati e anche confortevoli, la tua vita non sarà facile. Se invece nel piano psicologico ed emozionale la tua posizione in questa vita è sia salda che piacevole, allora la vita va avanti pacificamente.

Se accettiamo che lo yoga vada praticato durante tutta la vita quotidiana, allora questa "postura" può anche riferirsi all'atteggiamento che assumiamo riguardo alla vita. Il tuo atteggiamento verso la vita dev'essere stabile e confortevole, una disciplina scomoda è improbabile che duri, perché crea una tensione o ribellione interiore: però una certa disciplina è necessaria. Quella disciplina deve essere imbevuta dell'aroma del senso comune, solo allora ha la possibilità di durare a lungo.
Quindi per postura si può intendere la postura che assumi per la meditazione e anche le posizioni che assumi nella vita, nelle tue relazioni con la gente. Se non c'è una spaccatura o un violento conflitto nelle nostre relazioni queste possono durare a lungo ma, una volta che una relazione è stata rovinata, è molto difficile ricucirla. Anche se aggiustata sarà un rammendo: la minima eccitazione può scioglierla di nuovo!

Devi trovare un terreno solido, se non l'hai ancora trovato, ogni folata di vento ti farà volare in una direzione o nell'altra; una volta che hai messo le radici in un terreno solido e sei costante, puoi crescere quanto vuoi in altezza o in ampiezza, perché non sarai sradicato. Tutto questo dev'essere accompagnato da comfort e gioia interiore, in caso contrario la mente si ribellerà contro qualsiasi cosa fai. Ed è vero tanto delle posture di yoga che della postura chiamata vita. Se hai avuto la sfortuna di stirarti un muscolo durante una posizione yoga, per molto tempo il corpo si rifiuterà di assumerla di nuovo, perché è traumatizzato. Anche nella vita, se vieni a trovarti in una situazione complicata in una relazione personale, la mente vuole evitarla: non vuole esserne coinvolta.

Solo la persona che è in pace dentro di sé, che assapora quella pace e vi trova diletto, che sente la bellezza e la gioia di quella pace, non vorrà essere trascinato in alcun tipo di conflitto. Una persona tale è pace, e irradia pace e gioia. Non è lottando che uno può stabilire la pace o la felicità ma rilassandosi e lasciando che tutto si sciolga. Essendo radicato nella pace ed essendo fermamente stabilito nella gioia interiore, quella persona può irradiare o promuovere tali cose nella vita.
Questo breve Sūtra, dunque, può avere tutte queste applicazioni nella nostra vita quotidiana.


YOGA SU̅TRA II.47  prayatna śaithilyā  'nanta samāpattibhyā  

Tale postura può essere ottenuta (1) con l'abbandono dello sforzo e dell'uso della volontà, e (2) con la continua consapevolezza dell'infinito  come eterna esistenza. 
    
Per assicurarsi che abbiamo ricevuto il messaggio, che non c'è sforzo, Patanjali aggiunge un altro aforisma. Due cose devono esserci insieme - prayatna śaithilya -  cioè "quasi spontaneo, senza lotta". Questo significa arrivare fino al punto dove inizi a sentire resistenza, e fermati lì. Se ti fermi prima, sei pigro. Ma questo è solo meta dell'aforisma, l'altra metà - ananta samāpattibhyāṁ - significa "contemplazione dell'infinito", che è una maniera molto romantica di dire, "Vai avanti".  C'è infinita potenzialità dentro di te, contempla l'infinito. Perciò l'autore dice, "Fermati quando senti resistenza, ma continua dolcemente".
Questo è vero della postura di yoga e anche della postura chiamata vita. Quando c'è una lotta o un problema nella tua vita ricordati questo. Non lottare per uscirne, perché quello peggiora la situazione. Ricordati anche che tu eri lì prima che il problema entrasse nella tua vita e che continuerai ad esserci dopo. Tu sei l'infinito, il problema è solo un piccolo incidente nella tua vita.
Dev'esserci giusto l'impegno sufficiente, sapendo che l'intelligenza nel corpo, che ha creato questo corpo e lo sostiene, è in grado di risolvere ogni situazione che sorga nella vita. Non è necessario affliggersi per quello adesso.
Quindi, nella pratica delle āsana e nella posizione che uno prende nella vita stessa, minore è il conflitto, maggiore è la purezza e la bellezza. L'immagine sorge nella tua mente e subito l'intelligenza in tutti i tuoi arti entra in azione: senza conflitto. Contemplando l'indivisibilità dell'intelligenza, il corpo assume la postura, e la persona assume una certa posizione riguardo la vita e tutte le relazioni.


YOGA SU̅TRA        II.48   tato dvandvā 'nabhighātaḥ

Poi sorge l'immunità dagli attacchi furiosi delle coppie di inseparabili opposti - come dolore e piacere, caldo e freddo, successo e fallimento, onore e disonore.

Una volta che sei stabilmente seduto, quando hai acquisito la maestria in questa postura di meditazione e la mente o l'attenzione fluisce in un'unica direzione, c'è un'energia elevata e la tua mente non è facilmente distratta o deviata.

Ecco un bellissimo esercizio. Siediti nella posizione del fior di loto e dì a te stesso: "Ora non mi alzo per le prossime tre ore". Le ginocchia ti cominciano a far male, tu non sopporti il dolore (se sopporti il dolore diventi un martire, erigeremo una statua per te!), ma lo utilizzi per cercare di scoprire che cos'è che lo chiama dolore. C'è sicuramente una sensazione nelle gambe; dov'è che questa sensazione (una mera sensazione neurologica) viene convertita nella categoria psicologica di dolore? Perché questo fenomeno neurologico non può rimanere come fenomeno neurologico? Perché deve invadere la tua psiche? Un nervo fa male, lascia che faccia male; un nervo punge, lascialo pungere. Perché il cervello deve interpretare questo fenomeno neurologico come dolore? Perché non come piacere? O, perché piacere? Perché non lasciarlo come fenomeno neurologico?
Se uno osserva quello che succede dentro di sé durante la pratica di questa āsana, allora quello diventa yoga. L'idea è che mentre ogni postura viene eseguita uno deve vedere cosa sta succedendo al corpo. Cosa dice il corpo? Qual è la sensazione? Il cervello o la mente come interpreta questa sensazione?
Se uno comprende lo spirito dell' āsana  in questa maniera, questo aforisma spiega cosa succede (non necessariamente come risultato di tutto questo). Lo studente di yoga trascende o è immune agli attacchi di quelle che sono chiamate coppie di opposti. C'è un'espressione leggermente modificata, "coppie di inseparabili opposti" come il giorno e la notte o il caldo e il freddo; non puoi separare l'uno dall'altro. Anche se ti rechi in un luogo dove fa sempre caldo, scopri che il tuo corpo comincia a sudare profusamente; dove c'è il caldo dev'esserci qualche tipo di agente rinfrescante. Perciò ogni cosa è accompagnata dal suo opposto. Se hai un amico, in lui hai un nemico; vuoi che continui ad essere tuo amico, perciò speri di non offenderlo: già così lo stai inimicando, perché la paura di perdere un amico è già la nemica nascosta di questa relazione. In un altro caso, è possibile che qualcuno ti odi e il sentimento iniziale è che lui sia tuo nemico. Hai tanta paura, e a causa di questo ti comporti bene con lui, creando così un'amicizia a quel livello. Queste cose non vengono da sole.

Quindi, se questa definizione che abbiamo studiato finora riguardo la postura - che dev'essere stabile e confortevole, mantenuta con il minimo sforzo e che ci sia la contemplazione dell'infinito - è stata compresa, allora non vieni impantanato da queste coppie di inseparabili opposti. Ti rendi conto che lui è un amico: adesso devi avere paura di lui; lui è tuo nemico, adesso devi farci amicizia. Fa caldo, non importa, suderai; fa freddo, ti metti un maglione e ti riscaldi.
Questo aforisma è anche stato interpretato dai commentatori ortodossi a significare che, se sei in grado di avere questa stabile postura e di entrare in meditazione, non sarai affetto dal caldo e dal freddo. Per me questo è molto infantile, come un contentino; mentre comprendendo l'intero spirito di questo testo, si apre una prospettiva di incredibile bellezza. Tutta la tua vita si trasforma!

Se la posizione nella vita (come anche la postura fisica) è ferma e c'è costante contemplazione dell'infinito senza alcun conflitto, allora qualunque cosa accada nella vita - onore, disonore, dolore, piacere, felicità o infelicità - diventi un tipo di ottimista in grado di vedere che c'è sempre un po' di felicità celata nell'infelicità. (Vi prego di non pensare che io intenda il complesso del martire o il masochismo). Non puoi scrivere la parola "infelicità" senza la parola "felicità" insita in essa. L'infelicità è solo un'estensione della felicità: è quando cerchiamo di estendere la felicità che cadiamo nell'infelicità. Sii contento con quel tanto di felicità che viene, godine, lasciala andare. Non desiderare di ottenerla ancora o di estenderla: siccome così non ripudi quello che arriva dopo, questo non diventa vera in-felicità.
Dunque, quando sei fermamente e spontaneamente stabilito in questa postura e quando contempli l'infinito tutto il tempo - non solo quando ti siedi nella posizione del fior di loto per la tua meditazione, ma in qualunque postura tu possa assumere, fisicamente e mentalmente - questo è il senso in cui la parola āsana viene usata.
    
(Da: The Yoga Sutras of Patanjali, with commentary by Swami Venkatesananda, The Divine Life Society, P.O. Shivanandanagar - 249 192, Himalayas,  India)

Poesie di Swami Sivananda


La Felicità è dentro

Il muschio è nell'ombelico del cervo ma questo corre dappertutto rincorrendo quel profumo.
   La collana è al collo della damigella ma lei si dispera per cercarla.
Il decimo uomo c'è ma lui dimentica di contare se stesso e si dispera.

             Hai burro fresco in abbondanza; ma vai in giro a cercare del ghee (burro conservato).

Il diamante prezioso è dentro di te ma tu corri inutilmente, in cerca di un pezzetto di vetro.
  La chiave ce l'hai in tasca ma la cerchi invano dappertutto.
Allo stesso modo, hai un oceano di beatitudine dentro di te, eppure ti disperi alla ricerca della felicità.
   Il Sole dei soli splende sempre dentro di te ma i tuoi occhi accecati non possono vederlo.
Il suono eterno risuona dentro di te ma le tue orecchie sorde non possono udirlo.
   Sivananda dice: "Guarda dentro,  medita, e godi della beatitudine eterna dell'Atman." 
                                                                              (Sivananda Daily Readings, 24 Settembre)
                                                                                            Pubblicato da: "The Chiltern Yoga Trust"  P.O. Elgin 7180 South Africa 




UN  ALBERO SENZA RADICI

C'è un albero misterioso:
Non ha radici,
E' cresciuto senza un seme,
Porta frutti senza fiori,
Non ha rami né foglie,
Non ha midollo né fusto. 
Molti uccelli sono seduti su quest'albero.
E' un albero molto antico,
senza inizio e senza fine.
Non ha causa alcuna, né mai si secca,
Nessun'ascia può tagliarlo.
L'albero che offre riparo a milioni di esseri,
E' il vijnana-vriksha 
L'albero della pura conoscenza che dona l'immortalità.
Esso è superiore al mitico kalpaka vriksha,  l'albero che appaga i desideri.

Così dice Sivananda.

 ***



IL MIO GIORNO AUSPICATO

Ho celebrato questo giorno glorioso
Con grande pompa e acclamazione,
Con un gran numero di luminarie e canti di gioia.
Il mio desiderio è stato appagato.
Ho incontrato il mio Adorato.
Come troverò le parole
Per esprimere la bellezza del mio Amato?
E' luminoso come milioni di soli,
Ha posto il suo trono nel mio cuore.
Brilla nel suo splendore la lampada dell'amore.
Ho accolto il mio Adorato  con il lavacro dell'amore.
L'ho adornato con una ghirlanda di fiori di prem (divino amore).
Gli ho offerto burro e canditi.
Ho bevuto dalla coppa dell'amore,
colma fino all'orlo -
E' il calice della gioia perfetta,
trabocca del mio rapimento.
La grazia del mio Signore è scesa su di me.
Quale grande benedizione
la visione del mio Adorato.

Così dice Sivananda.

(Sivananda Daily Readings, 22 Settembre)
The Divine Life Society Press
Shivanandashram - Himalaya
-->

Venkatesa daily readings, 14 Marzo




Non bisogna più chiedersi "Sono io che devo occuparmi dei miei fratelli?". La coscienza chiede invece, "Non sono forse io che devo occuparmi dei miei fratelli?" e non aspetta che ci sia una risposta. L'amore è la spontanea manifestazione che consegue al vedere, realizzare questa unità in cui siamo tutti intessuti - quale che sia la nostra religione, casta, nazionalità o stato sociale. L'amore non conosce distinzioni e la distanza non conta: l'amore fluisce dovunque ve ne sia bisogno, spontaneamente, proprio come l'acqua scorre da un terreno più alto ad uno più basso.

Il Rig Veda dichiara:
"Ahyam me hasto bhagavān" - Questa mia mano è Dio.
La parola hasto significa sia mano che abbondanza.
Una persona matura comprende la sua relazione di interdipendenza con tutti gli esseri viventi ed evita così la trappola dell'egoismo nella quale potrebbe altrimenti cadere. L'interdipendenza, come l'amore, è naturale; è la mutua dipendenza di due o più persone che sono psicologicamente indipendenti e libere. La società composta di persone di questo tipo è in grado di sostenersi e di prosperare.

Solo il tipo di prosperità e di progresso raggiunti da questo amore reciproco e mutua collaborazione è vero e duraturo - ed è davvero a portata di mano!

Venkatesa daily readings,                    15 Marzo

La natura è piena di doni; la luce splende tutt'intorno ma noi ci volgiamo via da essa creando il buio nella nostra vita. Così le nuvole si addensano creando confusione, disordine, dolore e sofferenza. Nel nostro sforzo frenetico di liberarci del dolore e della sofferenza dimentichiamo che è proprio il desiderio di liberarci dal dolore e dalla sofferenza che costituisce la sofferenza e che lo sforzo la rende peggiore. Lo sforzo di creare ordine è di per sé disordine.
Questo lo vediamo durante il sonno: il sonno è "azione nella non-azione". Quello che ha riposato nel sonno ha dormito senza la nozione di dormire, senza neanche la consapevolezza di dormire e senza neanche il desiderio di dormire bene. Nel sonno non c'era divisione tra essere e fare, tra l'intelligenza e l'azione. In altri momenti l'idea che abbiamo dell'azione interferisce con l'essere o l'intelligenza: è l'idea che agisce, l'idea stessa è l'io. L'io crea una motivazione, uno scopo o una ricompensa: così sorgono le idee di successo e fallimento, piacere e dolore e tutte le altre coppie di inseparabili opposti.

La mente che vede questa verità come verità e non come un'idea, è attenta. La stessa mente vigile è ordine, è virtù; il suo sguardo potente non permette all'idea di sorgere. In questa luce, le azioni avvengono - azioni che sorgono direttamente dall'essere o intelligenza. La vigilanza stessa della mente è la meditazione.

Gli Otto Rami dello Yoga


Gli Otto Rami dello Yoga
Astanga Yoga

(dal sanscrito "asht" che significa "otto", "anga" che significa "arto, membro, ramo")



Seminario a Parigi, Marzo 1982


Quarto Giorno


Vi sono due termini nello Yoga.  Uno è yama,  che già stiamo esaminando; l'altro è samyana.   In sanscrito (e anche in pali ed altre lingue) sam è un prefisso che denota enfasi, es.: fatto - ben fatto.
Samyana quindi vuol dire, yama portato alla perfezione, il culmine dello yama, il completamento di yama; significativamente, nello Yoga, yama è considerato come il primo stadio e samyama come l’ultimo.  Questo se volete pensare che lo yoga abbia dei gradini; personalmente, io non ritengo sia così, ma questo non è importante.
Se sei sincero e serio nella tua pratica scoprirai che yama è impossibile senza samyama e che samyama è identico a yama.
Non puoi praticare una virtù e pensare che diventerai perfetto dopo; se non sei perfetto, non sei virtuoso e, se non sei virtuoso, non sei perfetto.  Se non sai come entrare in samādhi, non puoi neanche praticare ahimsā  (la prima delle yama - non violenza); se non pratichi ahimsā, non puoi entrare in samādhi.
Yama e samyama sono esattamente le stessa cosa. Samyama è samādhi; samādhi (ne parleremo più in là) possiamo chiamarla “estasi”.  Siamo solo passati da una parola all’altra e ogni parola ha gli stessi difetti, le stesse limitazioni di qualsiasi altra - satori, samādhi, “realizzazione del Sé”, realizzazione di Dio”, “estasi”.
Solo nell’estasi c’è conoscenza, in quella conoscenza non c’è divisione, dove non c’è divisione c’è l'amore: dove c’è l'amore c’è la virtù.
Questi sono tutt'uno; non si possono separare l’uno dall’altro, né si può fare dell’uno una scala per l’altro. Conoscenza, amore, estasi, unità, sono tutti sinonimi.  Quell'unità non ha alcuna divisione; la conoscenza è guardare dentro qualcosa, non a qualcosa: in questo caso, si tratta di un modo di guardare dentro senza divisione. Dove non c’è divisione, cosa guarda a che cosa?  La totalità guarda dentro se stessa: questo è chiamato samādhi.

Ma questa estasi non è uno strano fenomeno che solo asceti e mistici nelle grotte delle montagne imalaiane praticano e raggiungono: è a disposizione mia, vostra, di tutti!  Ne abbiamo avuto esperienza migliaia di volte, non solo quale esperienza di sonno profondo, ma come esperienza estatica; una volta o l’altra l’abbiamo tutti avuta.  Come mai non è continuata?  Cosa non ha funzionato?  L’estasi è un’esperienza senza un oggetto che abbia l’esperienza.  Quella è l’estasi; un’osservazione senza osservatore è samādhi.  Ma quest'estasi, essendo colma di conoscenza, ha latente in se stessa la potenzialità di formare un soggetto dell’esperienza, come nel processo di cristallizzazione, una soluzione satura di sale può formare un cristallo.  Quell’estasi può durare mezz’ora, cinque minuti, due minuti, un decimo di secondo; può trattarsi di una forma più bassa di estasi, come può accadere in un'esperienza sensuale; guardi una bella ragazza: - aah! stupenda! - c’è l'estasi di un attimo.  Oppure puoi entrare in meditazione, satori, shakti-pat, trasmessoti da qualcuno e c’è l’esperienza di estasi, che può durare anche un’ora, due ore.
Abbiamo sentito recentemente che c’è chi può farti entrare in samādhi per nove giorni: bene, meraviglioso!  Tu però non sai che si tratta di nove giorni; non c’è un soggetto della esperienza che stia a contare: mezz’ora, un’ora...

Nell'estasi, trattandosi di uno stato di piena consapevolezza, al contrario del sonno profondo o dello stato di coma, c’è la potenzialità del sorgere di un soggetto dell’esperienza.  La coscienza ha questa potenzialità inerente.  Spesso ci riferiamo alla coscienza come alla “luce interiore”.  Il sole o una lampada illuminano  se stessi e poi gli oggetti che li circondano; questo avviene in qualsiasi sorgente di luce ma, la cosa più strana è che, nel nostro caso, la conoscenza o questa luce interiore che splende in noi, oscura se stessa e illumina gli altri: è una tragedia!  Non siamo mai consci di quello che noi siamo veramente ma siamo consci di persone o di oggetti in questo mondo.  Il sorgere di un soggetto è inerente ad ogni esperienza in cui c’è coscienza e quel soggetto, non essendo conscio di se stesso, diventa conscio dell’oggetto dell’esperienza.
 
Ecco che il pensiero sorge; la consapevolezza dell’altro è chiamato pensiero: è così semplice!  Che “l’altro” voglia dire ciò che succede nella tua stessa mente (es.: un senso di felicità) o che si riferisca a quello che tu pensi che sia la sorgente di tale felicità.
Quando tale divisione non esiste, siamo felici ma, all'improvviso qualcosa succede: “Io sono felice di essere con te!”

Questo ci dà l’impressione della divisione, crea l'illusione di essere due entità distinte; in realtà siamo ancora una cosa sola, ma il collegamento è nascosto sotto  un velo di ignoranza.
Quando io sono felice di essere con te, ho creato uno spazio e, immediatamente, un “io” sorge e un “tu” è creato, con un serie di conseguenze: “io sono felice con te”, “la mia felicità viene da te”, “tu sei felicità per me”.  L’io è dimenticato e, per il momento, solo tu esisti.  Poi, quando questo “tu” è insoddisfacente, vai da un altro “tu” - sei sempre rivolto verso l’esterno.

All’improvviso cominci a capire che questa divisione è l’origine di tutti i tuoi problemi - questo è l’inizio dello yoga, l’inizio di yama: l’abolizione di questa divisione e la contemporanea realizzazione dell’unità è yoga - potete anche chiamarlo come volete.

Non è apportare un’unione; non c’è bisogno di apportarla, è già lì, sommersa nell’ignoranza.  Yama pone fine a questo stato di ignoranza nel quale tu pensi di essere diverso e distinto da me.

E’ allora che diventa chiaro come capire gli altri, come amare gli altri; tutte le discipline descritte sotto il titolo di “yama” diventano chiare.  Se ti rendi conto che (per usare un’espressione semplificativa) siamo cellule di un solo organismo, allora non ci faremo male l’un l’altro - e, se ci viene fatto del male, non ci sentiamo offesi; forse questo non ha senso per voi?

C’è una bellissima espressione in una lingua indiana, in tamil:
“Ti  taglieresti forse la mano, se questa accidentalmente ti accecasse un occhio?”

E’ una cosa che può succedere e può anche essere una cosa seria ma non andiamo certo a punire il dito. Per questo i saggi ci chiedono come mai andiamo in collera quando qualcuno ci fa qualcosa, perché, in realtà, non si tratta di qualcun altro: anche lui  è come un dito della tua stessa mano!  Quando questo è chiaro, ahimsā  (la non-violenza) viene praticata senza sforzo, diventa naturale.  Allora la tua consapevolezza fluisce senza sforzo, in maniera unificata verso il centro, verso il sé (e questo è chiamato brahmacharya, il quarto yama).   E’ allora che il desiderio scompare - non voglio accumulare nulla a spese tue perché, se tu sei infelice, lo sono anch’io.  Queste non sono virtù da coltivare, ma virtù da essere capite in un senso molto diverso.

Mi rendo conto che, se sono il soggetto di una esperienza, alle dipendenze dell’oggetto di essa, non sarò mai felice, non troverò mai neanche quello che penso di star trovando.  In un momento sono felice, in quindici altri sono infelice.
Questo continua, fino a quando, una bella mattina mi sveglio alla verità che (senza alcun riguardo per l’oggetto dell’esperienza) l’esperienza è in me.  “Io” sono ancora lì, amando o odiando il “tu” ma mi rendo conto che sono io che ho esperienza di questa infelicità, indipendentemente da chi tu sia o cosa tu faccia - devo fare in modo da capire questo!
Nel momento in cui fai questo passo, l’oggetto dell’esperienza, va anch’esso sotto la coperta.  Insieme al resto dell’umanità, anche tu entri nella zona della mia ignoranza (come quella del sonno profondo).
Ti spingo lì, non voglio sapere chi tu sia, sapendo che non posso conoscerti in uno stato di divisione; finché c’è un rapporto diviso, non posso conoscerti: conoscere significa entrare dentro, esperienza indivisa, estasi, amore.

Nel momento in cui ho diviso questo fattore indivisibile, l'amore” , riducendolo a “io-amo-te”, ti ho perso! Da questa posizione non posso conoscerti, è assurdo. Mi rendo conto che non  posso conoscerti. Posso dire - ti amo - ma...ti amo ora...ti amo ora perché... Quella frase di tre parole, non è mai “io ti amo”, completa in se stessa.
Non ti amavo ieri, non sapevo neanche chi eri ieri, ora ti amo...ma neanche questo è completo: ti amo perché...sei bella, attraente, sei buona con me... Una volta che questi “perché” non ci sono più, tutto si può ridurre in frantumi. In questo non c’è amore, non c’è “conoscere” (non c’è niente). Quando mi rendo conto “non posso conoscere te” allora m’impegno a conoscere almeno me stesso.

Lascio perdere te, mi dedico a scoprire me stesso: l’esperienza di gioia sorge in me, l’esperienza di infelicità sorge in me, allora lasciami capire me stesso. Se ci sono tanti miliardi di persone nel mondo, ne conosco solo cento, o meglio, penso di conoscerne cento. Quando mi rendo conto che penso di conoscere m, in realtà, non conosco queste cento persone, le metto una ad una sotto la stessa coperta; è lì che sono anche le altre migliaia di milioni! Esse non sono responsabili della mia infelicità; sono io che devo scoprire dove sorge la felicità in me, e dove sorge l’infelicità in me.

Allora, quando questa conoscenza rivolge l’attenzione verso se stessa, l’oggetto scompare e la consapevolezza comincia a fluire verso l’interno. Ehi!! E’ abituata a fluire verso l’esterno ma ora fluisce verso l’interno! Ora c’è una forte collisione;  Quando questa lotta avviene, questo diventa il punto di consapevolezza. La consapevolezza tende a fluire verso l’esterno, perché è abituata in quel modo: è abituata a guardare ad altro. Ora sto ritirando l'attenzione: “pratyahara  questo è il famoso nome datogli nella terminologia yogica. L’attenzione che fluisce verso se stessa è pratyahara, raccogliere, restringere. L’attenzione sta fluendo verso il sé: ma cos’è il sé? Che l’attenzione fluisca verso il sé, vuol dire che il sé diventa un oggetto? No! E’ assurdo! Eppure è così che sembra. C'è l’abitudine a tendere verso l’esterno mentre l’investigazione porta l’attenzione verso il centro: le due tendenze entrano in collisione.

A questo punto c’è un’idea che il sé sia lì, all’interno, come se lo si potesse guardare...come posso guardare il sé? Sono questo o quello...questo...quello... Può il sé essere guardato? La battaglia interna è in atto, continua. Cos’è questo sé?
Nel porti questa domanda in questo modo, può aiutarti l'uso di un mantra o formula, un mandala  o cosmogramma; se vuoi usare un mandala usa pure un mandala, se vuoi guardare ad una figura, guarda pure una figura, ma rivolgiti sempre internamente, non all’esterno.

Ancora una volta, nell’applicazione di uno qualsiasi di questi metodi c’è un’esperienza e un soggetto dell’esperienza; prima il soggetto si rivolgeva al ‘tu’, ora ad ‘esso’: non c’è differenza. C’è l'infelicità a parte il pensiero di infelicità? C’è la felicità a parte il pensiero di felicità? C’è una esperienza che non sia definita tale da un soggetto di essa? Io sto ripetendo il mantra, io sto ascoltando il mantra: c’è una tremenda rivoluzione. Una volta l’attenzione è rivolta da un lato: sto dicendo il mantra? Una volta è rivolta dall’altro lato: sto ascoltando il mantra? E’ questo io? E’ quello io? Tutto questo avviene ad una velocità spaventosa. Questo processo è la meditazione.
Non si tratta solo di ripetere un mantra o di visualizzarlo: tutti questi sono di grande ausilio ma  la pratica della meditazione è cercare di scoprire se sei l’esperienza o il soggetto dell’esperienza. Sei l’esperienza stessa? Sei quello che ha l’esperienza?
Questi due sorgono entrambi simultaneamente dal sonno: non è così? Dallo stato di inconsapevolezza, appena sorge la consapevolezza sorge l'esperienza - soggetto dell’esperienza. Sorgono insieme, un soggetto e un oggetto. Quando, subito dopo, questa divisione soggetto-oggetto è importata dentro di sé (per modo di dire, perché non so che cosa sé voglia dire) allora sorge un’esperienza interiore: che sia l’esperienza di vedere qualcosa come un mandala, o di sentire qualcosa come un mantra - c’è una divisione. 
E’ logico che la coscienza non può essere divisa, lo spazio non può essere diviso. Come potrebbe la coscienza, la consapevolezza essere divisa? E’ più sottile dello spazio! Eppure c’è una (scusate la parola) maledetta, reale esperienza di divisione! Sto dicendo il mantra e lo sto ascoltando!  Ehi! Eppure sono uno! o forse sono tre?! Infatti posso vederli entrambi! Una volta guardo l’uno, una volta l’altro...!
  Un’altalena tremenda, ad una velocità terrificante.  Se per caso l’attenzione comincia a fluire verso l’esterno, ti rendi conto che stai ancora una volta guardando ad un oggetto fuori. Che si tratti di un oggetto esterno (rappresentato lateralmente) o di un oggetto dentro (rappresentato verticalmente), l’oggetto è sempre un oggetto. Come può esserci un oggetto se sono uno? Questo problema diviene  straordinariamente profondo nella meditazione.

Quando ti accorgi che puoi osservare i tuoi stessi pensieri, quando puoi vedere i pensieri nascere e scomparire, sorgere e cadere...! dio mio, che cos’è? Perché sorgono? -- La memoria! Un risveglio della memoria! Anche il mantra è memoria. Hai sentito il suono da qualcuno e continui a ripeterlo. Il mandala, la figura, qualsiasi oggetto, non sono altro che memoria. La memoria è pensiero, il pensiero crea divisione e la divisione è sostenuta. Quando può essere compresa questa sorgente del pensiero? Può la memoria conoscere se stessa? Può la memoria diventare l’oggetto di se stessa? Può il me, posso io diventare il mio stesso oggetto? Questo vuol dire creare una divisione dentro di me! Posso abolire quella divisione? Ma in che modo? Quest'investigazione deve arrivare per forza in un vicolo cieco: deve finire con la morte dell’ego.

Quella è chiamata yama; improvvisamente tutto cade. Allora, se hai quell’abitudine, dirai: “Dio...finito!” Se non credi in un dio dirai: questo problema è impossibile da risolvere...ah, no!
Se fosse davvero impossibile, non mi sarei mai sforzato di risolverlo "Questo problema è impossibile da risolvere attraverso uno sforzo”. Così come mi addormento, senza alcuna volontà, se questo “me” (o memoria) lascia andare ... ecco qui.

Questo è chiamato īśvara pranidhāna, che è l’aspetto centrale di niyama (v. gli otto rami dello yoga). Non è un arrendersi impotente e non è neanche una resa per pigrizia; è un arrendersi che avviene dopo uno sforzo intenso in cui il me, che non è altro che memoria, riconosce che da sé non può risolvere questo problema, per cui cade.
 E’ interessante cosa succede quando questo sforzo cade: improvvisamente ti rendi conto mentre resti cosciente, che non c’è nulla in tutto l’universo che sia divisibile. Nulla, niente al mondo è divisibile. E’ allora che yama ha un senso; solo allora, quando quel cosiddetto ego, che in vari modi si è sforzato, è arrivato alla sua fine naturale (la fine naturale è che non era mai), ti rendi conto che non c’è bisogno di restrizione.
Allora yama, niyama, nirodha, che possono tutti significare esattamente la stessa cosa, non coinvolgono alcuno sforzo. Lo sforzo è solo qualcosa che tu ed io abbiamo l’ambizione di ottenere; abbiamo diverse ambizioni: una persona vuole diventare multi-miliardario, si dà da fare, si sforza, un’altra vuole rinunciare a tutto e diventare un grande yogi: si sforza, si sforza.
Una persona pensa di voler uccidere tutti quelli che gli sono d’ostacolo, perché vuole vivere felicemente, un’altra dice “voglio tagliare il mio corpo a pezzi e darlo in pasto ai cani, in modo che i cani siano felici”! E’ la stessa cosa. Nessuna è superiore all’altra. Se yama non è conosciuta come inseparabile da samyama o meditazione, ogni tipo di pratica bizzarra e grottesca può venirne fuori; ecco un paio di esempi folli. Sapete quali sono gli yama:

ahimsā, satya, asteya, bramhaciarya, aparigraha - yamah. (Yoga Sutra II.30)

Ahimsā: non violenza. Buddha diede grande enfasi ad ahimsā; il suo insegnamento riguardo ad ahimsā è bellissimo, ad ogni modo, quello che popolarmente si conosce è: non uccidere.
Questo insegnamento era stato trasmesso a della gente della Mongolia o del Tibet, regioni dove c’è pochissimo da mangiare e dove è impossibile coltivare qualsiasi tipo di vegetale. L’unica dieta di queste popolazioni è la carne. Alcuni andarono dall’anziano capo e chiesero cosa dovessero fare, avendo ricevuto quell’insegnamento del Buddha. Il capo disse: “Portatemi il libro, studiamolo bene, leggetelo”. Il discepolo lesse: “Non farai cadere una goccia di sangue di un essere vivente per tua mano!” - Ma questo è semplice! Perché non lo avete letto prima? Portatemi un capro o un agnello e del cotone. Mettete questo cotone in tutte le aperture dell’animale, poi strangolatelo. Ora è morto, potete aprirlo e prepararlo per mangiare. Mentre era vivo non è uscita alcuna goccia di sangue, ora è morto: potete fare quello che volete! Questo è il tipo di perversione che sorge. Questo non è ahimsā.

Satyam: dire la verità; ho anche sentito la storia di un giovane (in Sud Africa) che si unì ad una certa setta, basata sull'aderenza assoluta ai dieci comandamenti. Il giovane si accorse che sua madre aveva un amante: “Una relazione di adulterio”, quindi andò e rese pubblico il fatto, lo disse a chiunque incontrava. Poi, il padre iniziò la causa di divorzio e chiedevano al giovane come mai stesse facendo una cosa del genere contro sua madre. “Ho giurato di dire la verità!” Ma che tipo di verità è questa? Non ti accorgi che stai facendo del male a qualcuno? Questa non è verità.

Nello stesso modo asteya, aparigraha ... Tutti questi yama sorgono in te se entri in samadhi, se l’attenzione è rivolta dall’oggetto al sé. E’ il sé che genera tutti questi cattivi pensieri, parole, azioni.
E’ reale questo sé? E’ reale l’esperienza di felicità, piacere, profitto, nome, fama? Qual è il carattere di queste esperienze? Chi è l’io che brama queste esperienze? Quando quell'investigazione ha inizio, stai praticando pratyahara; quando l’investigazione diventa altamente concentrata, c’è dharana e quando l’investigazione diventa molto attiva dentro, c’è dhyana, meditazione. Poi, all’improvviso, tutto sembra cadere e...sei lì: samadhi.
---------------------------------------------------------------------------------------
Continuare la lettura: