Seminario a Parigi, Marzo 1982


Quarto Giorno


Vi sono due termini nello Yoga.  Uno è yama,  che già stiamo esaminando; l'altro è samyana.   In sanscrito (e anche in pali ed altre lingue) sam è un prefisso che denota enfasi, es.: fatto - ben fatto.
Samyana quindi vuol dire, yama portato alla perfezione, il culmine dello yama, il completamento di yama; significativamente, nello Yoga, yama è considerato come il primo stadio e samyama come l’ultimo.  Questo se volete pensare che lo yoga abbia dei gradini; personalmente, io non ritengo sia così, ma questo non è importante.
Se sei sincero e serio nella tua pratica scoprirai che yama è impossibile senza samyama e che samyama è identico a yama.
Non puoi praticare una virtù e pensare che diventerai perfetto dopo; se non sei perfetto, non sei virtuoso e, se non sei virtuoso, non sei perfetto.  Se non sai come entrare in samādhi, non puoi neanche praticare ahimsā  (la prima delle yama - non violenza); se non pratichi ahimsā, non puoi entrare in samādhi.
Yama e samyama sono esattamente le stessa cosa. Samyama è samādhi; samādhi (ne parleremo più in là) possiamo chiamarla “estasi”.  Siamo solo passati da una parola all’altra e ogni parola ha gli stessi difetti, le stesse limitazioni di qualsiasi altra - satori, samādhi, “realizzazione del Sé”, realizzazione di Dio”, “estasi”.
Solo nell’estasi c’è conoscenza, in quella conoscenza non c’è divisione, dove non c’è divisione c’è l'amore: dove c’è l'amore c’è la virtù.
Questi sono tutt'uno; non si possono separare l’uno dall’altro, né si può fare dell’uno una scala per l’altro. Conoscenza, amore, estasi, unità, sono tutti sinonimi.  Quell'unità non ha alcuna divisione; la conoscenza è guardare dentro qualcosa, non a qualcosa: in questo caso, si tratta di un modo di guardare dentro senza divisione. Dove non c’è divisione, cosa guarda a che cosa?  La totalità guarda dentro se stessa: questo è chiamato samādhi.

Ma questa estasi non è uno strano fenomeno che solo asceti e mistici nelle grotte delle montagne imalaiane praticano e raggiungono: è a disposizione mia, vostra, di tutti!  Ne abbiamo avuto esperienza migliaia di volte, non solo quale esperienza di sonno profondo, ma come esperienza estatica; una volta o l’altra l’abbiamo tutti avuta.  Come mai non è continuata?  Cosa non ha funzionato?  L’estasi è un’esperienza senza un oggetto che abbia l’esperienza.  Quella è l’estasi; un’osservazione senza osservatore è samādhi.  Ma quest'estasi, essendo colma di conoscenza, ha latente in se stessa la potenzialità di formare un soggetto dell’esperienza, come nel processo di cristallizzazione, una soluzione satura di sale può formare un cristallo.  Quell’estasi può durare mezz’ora, cinque minuti, due minuti, un decimo di secondo; può trattarsi di una forma più bassa di estasi, come può accadere in un'esperienza sensuale; guardi una bella ragazza: - aah! stupenda! - c’è l'estasi di un attimo.  Oppure puoi entrare in meditazione, satori, shakti-pat, trasmessoti da qualcuno e c’è l’esperienza di estasi, che può durare anche un’ora, due ore.
Abbiamo sentito recentemente che c’è chi può farti entrare in samādhi per nove giorni: bene, meraviglioso!  Tu però non sai che si tratta di nove giorni; non c’è un soggetto della esperienza che stia a contare: mezz’ora, un’ora...

Nell'estasi, trattandosi di uno stato di piena consapevolezza, al contrario del sonno profondo o dello stato di coma, c’è la potenzialità del sorgere di un soggetto dell’esperienza.  La coscienza ha questa potenzialità inerente.  Spesso ci riferiamo alla coscienza come alla “luce interiore”.  Il sole o una lampada illuminano  se stessi e poi gli oggetti che li circondano; questo avviene in qualsiasi sorgente di luce ma, la cosa più strana è che, nel nostro caso, la conoscenza o questa luce interiore che splende in noi, oscura se stessa e illumina gli altri: è una tragedia!  Non siamo mai consci di quello che noi siamo veramente ma siamo consci di persone o di oggetti in questo mondo.  Il sorgere di un soggetto è inerente ad ogni esperienza in cui c’è coscienza e quel soggetto, non essendo conscio di se stesso, diventa conscio dell’oggetto dell’esperienza.
 
Ecco che il pensiero sorge; la consapevolezza dell’altro è chiamato pensiero: è così semplice!  Che “l’altro” voglia dire ciò che succede nella tua stessa mente (es.: un senso di felicità) o che si riferisca a quello che tu pensi che sia la sorgente di tale felicità.
Quando tale divisione non esiste, siamo felici ma, all'improvviso qualcosa succede: “Io sono felice di essere con te!”

Questo ci dà l’impressione della divisione, crea l'illusione di essere due entità distinte; in realtà siamo ancora una cosa sola, ma il collegamento è nascosto sotto  un velo di ignoranza.
Quando io sono felice di essere con te, ho creato uno spazio e, immediatamente, un “io” sorge e un “tu” è creato, con un serie di conseguenze: “io sono felice con te”, “la mia felicità viene da te”, “tu sei felicità per me”.  L’io è dimenticato e, per il momento, solo tu esisti.  Poi, quando questo “tu” è insoddisfacente, vai da un altro “tu” - sei sempre rivolto verso l’esterno.

All’improvviso cominci a capire che questa divisione è l’origine di tutti i tuoi problemi - questo è l’inizio dello yoga, l’inizio di yama: l’abolizione di questa divisione e la contemporanea realizzazione dell’unità è yoga - potete anche chiamarlo come volete.

Non è apportare un’unione; non c’è bisogno di apportarla, è già lì, sommersa nell’ignoranza.  Yama pone fine a questo stato di ignoranza nel quale tu pensi di essere diverso e distinto da me.

E’ allora che diventa chiaro come capire gli altri, come amare gli altri; tutte le discipline descritte sotto il titolo di “yama” diventano chiare.  Se ti rendi conto che (per usare un’espressione semplificativa) siamo cellule di un solo organismo, allora non ci faremo male l’un l’altro - e, se ci viene fatto del male, non ci sentiamo offesi; forse questo non ha senso per voi?

C’è una bellissima espressione in una lingua indiana, in tamil:
“Ti  taglieresti forse la mano, se questa accidentalmente ti accecasse un occhio?”

E’ una cosa che può succedere e può anche essere una cosa seria ma non andiamo certo a punire il dito. Per questo i saggi ci chiedono come mai andiamo in collera quando qualcuno ci fa qualcosa, perché, in realtà, non si tratta di qualcun altro: anche lui  è come un dito della tua stessa mano!  Quando questo è chiaro, ahimsā  (la non-violenza) viene praticata senza sforzo, diventa naturale.  Allora la tua consapevolezza fluisce senza sforzo, in maniera unificata verso il centro, verso il sé (e questo è chiamato brahmacharya, il quarto yama).   E’ allora che il desiderio scompare - non voglio accumulare nulla a spese tue perché, se tu sei infelice, lo sono anch’io.  Queste non sono virtù da coltivare, ma virtù da essere capite in un senso molto diverso.

Mi rendo conto che, se sono il soggetto di una esperienza, alle dipendenze dell’oggetto di essa, non sarò mai felice, non troverò mai neanche quello che penso di star trovando.  In un momento sono felice, in quindici altri sono infelice.
Questo continua, fino a quando, una bella mattina mi sveglio alla verità che (senza alcun riguardo per l’oggetto dell’esperienza) l’esperienza è in me.  “Io” sono ancora lì, amando o odiando il “tu” ma mi rendo conto che sono io che ho esperienza di questa infelicità, indipendentemente da chi tu sia o cosa tu faccia - devo fare in modo da capire questo!
Nel momento in cui fai questo passo, l’oggetto dell’esperienza, va anch’esso sotto la coperta.  Insieme al resto dell’umanità, anche tu entri nella zona della mia ignoranza (come quella del sonno profondo).
Ti spingo lì, non voglio sapere chi tu sia, sapendo che non posso conoscerti in uno stato di divisione; finché c’è un rapporto diviso, non posso conoscerti: conoscere significa entrare dentro, esperienza indivisa, estasi, amore.

Nel momento in cui ho diviso questo fattore indivisibile, l'amore” , riducendolo a “io-amo-te”, ti ho perso! Da questa posizione non posso conoscerti, è assurdo. Mi rendo conto che non  posso conoscerti. Posso dire - ti amo - ma...ti amo ora...ti amo ora perché... Quella frase di tre parole, non è mai “io ti amo”, completa in se stessa.
Non ti amavo ieri, non sapevo neanche chi eri ieri, ora ti amo...ma neanche questo è completo: ti amo perché...sei bella, attraente, sei buona con me... Una volta che questi “perché” non ci sono più, tutto si può ridurre in frantumi. In questo non c’è amore, non c’è “conoscere” (non c’è niente). Quando mi rendo conto “non posso conoscere te” allora m’impegno a conoscere almeno me stesso.

Lascio perdere te, mi dedico a scoprire me stesso: l’esperienza di gioia sorge in me, l’esperienza di infelicità sorge in me, allora lasciami capire me stesso. Se ci sono tanti miliardi di persone nel mondo, ne conosco solo cento, o meglio, penso di conoscerne cento. Quando mi rendo conto che penso di conoscere m, in realtà, non conosco queste cento persone, le metto una ad una sotto la stessa coperta; è lì che sono anche le altre migliaia di milioni! Esse non sono responsabili della mia infelicità; sono io che devo scoprire dove sorge la felicità in me, e dove sorge l’infelicità in me.

Allora, quando questa conoscenza rivolge l’attenzione verso se stessa, l’oggetto scompare e la consapevolezza comincia a fluire verso l’interno. Ehi!! E’ abituata a fluire verso l’esterno ma ora fluisce verso l’interno! Ora c’è una forte collisione;  Quando questa lotta avviene, questo diventa il punto di consapevolezza. La consapevolezza tende a fluire verso l’esterno, perché è abituata in quel modo: è abituata a guardare ad altro. Ora sto ritirando l'attenzione: “pratyahara  questo è il famoso nome datogli nella terminologia yogica. L’attenzione che fluisce verso se stessa è pratyahara, raccogliere, restringere. L’attenzione sta fluendo verso il sé: ma cos’è il sé? Che l’attenzione fluisca verso il sé, vuol dire che il sé diventa un oggetto? No! E’ assurdo! Eppure è così che sembra. C'è l’abitudine a tendere verso l’esterno mentre l’investigazione porta l’attenzione verso il centro: le due tendenze entrano in collisione.

A questo punto c’è un’idea che il sé sia lì, all’interno, come se lo si potesse guardare...come posso guardare il sé? Sono questo o quello...questo...quello... Può il sé essere guardato? La battaglia interna è in atto, continua. Cos’è questo sé?
Nel porti questa domanda in questo modo, può aiutarti l'uso di un mantra o formula, un mandala  o cosmogramma; se vuoi usare un mandala usa pure un mandala, se vuoi guardare ad una figura, guarda pure una figura, ma rivolgiti sempre internamente, non all’esterno.

Ancora una volta, nell’applicazione di uno qualsiasi di questi metodi c’è un’esperienza e un soggetto dell’esperienza; prima il soggetto si rivolgeva al ‘tu’, ora ad ‘esso’: non c’è differenza. C’è l'infelicità a parte il pensiero di infelicità? C’è la felicità a parte il pensiero di felicità? C’è una esperienza che non sia definita tale da un soggetto di essa? Io sto ripetendo il mantra, io sto ascoltando il mantra: c’è una tremenda rivoluzione. Una volta l’attenzione è rivolta da un lato: sto dicendo il mantra? Una volta è rivolta dall’altro lato: sto ascoltando il mantra? E’ questo io? E’ quello io? Tutto questo avviene ad una velocità spaventosa. Questo processo è la meditazione.
Non si tratta solo di ripetere un mantra o di visualizzarlo: tutti questi sono di grande ausilio ma  la pratica della meditazione è cercare di scoprire se sei l’esperienza o il soggetto dell’esperienza. Sei l’esperienza stessa? Sei quello che ha l’esperienza?
Questi due sorgono entrambi simultaneamente dal sonno: non è così? Dallo stato di inconsapevolezza, appena sorge la consapevolezza sorge l'esperienza - soggetto dell’esperienza. Sorgono insieme, un soggetto e un oggetto. Quando, subito dopo, questa divisione soggetto-oggetto è importata dentro di sé (per modo di dire, perché non so che cosa sé voglia dire) allora sorge un’esperienza interiore: che sia l’esperienza di vedere qualcosa come un mandala, o di sentire qualcosa come un mantra - c’è una divisione. 
E’ logico che la coscienza non può essere divisa, lo spazio non può essere diviso. Come potrebbe la coscienza, la consapevolezza essere divisa? E’ più sottile dello spazio! Eppure c’è una (scusate la parola) maledetta, reale esperienza di divisione! Sto dicendo il mantra e lo sto ascoltando!  Ehi! Eppure sono uno! o forse sono tre?! Infatti posso vederli entrambi! Una volta guardo l’uno, una volta l’altro...!
  Un’altalena tremenda, ad una velocità terrificante.  Se per caso l’attenzione comincia a fluire verso l’esterno, ti rendi conto che stai ancora una volta guardando ad un oggetto fuori. Che si tratti di un oggetto esterno (rappresentato lateralmente) o di un oggetto dentro (rappresentato verticalmente), l’oggetto è sempre un oggetto. Come può esserci un oggetto se sono uno? Questo problema diviene  straordinariamente profondo nella meditazione.

Quando ti accorgi che puoi osservare i tuoi stessi pensieri, quando puoi vedere i pensieri nascere e scomparire, sorgere e cadere...! dio mio, che cos’è? Perché sorgono? -- La memoria! Un risveglio della memoria! Anche il mantra è memoria. Hai sentito il suono da qualcuno e continui a ripeterlo. Il mandala, la figura, qualsiasi oggetto, non sono altro che memoria. La memoria è pensiero, il pensiero crea divisione e la divisione è sostenuta. Quando può essere compresa questa sorgente del pensiero? Può la memoria conoscere se stessa? Può la memoria diventare l’oggetto di se stessa? Può il me, posso io diventare il mio stesso oggetto? Questo vuol dire creare una divisione dentro di me! Posso abolire quella divisione? Ma in che modo? Quest'investigazione deve arrivare per forza in un vicolo cieco: deve finire con la morte dell’ego.

Quella è chiamata yama; improvvisamente tutto cade. Allora, se hai quell’abitudine, dirai: “Dio...finito!” Se non credi in un dio dirai: questo problema è impossibile da risolvere...ah, no!
Se fosse davvero impossibile, non mi sarei mai sforzato di risolverlo "Questo problema è impossibile da risolvere attraverso uno sforzo”. Così come mi addormento, senza alcuna volontà, se questo “me” (o memoria) lascia andare ... ecco qui.

Questo è chiamato īśvara pranidhāna, che è l’aspetto centrale di niyama (v. gli otto rami dello yoga). Non è un arrendersi impotente e non è neanche una resa per pigrizia; è un arrendersi che avviene dopo uno sforzo intenso in cui il me, che non è altro che memoria, riconosce che da sé non può risolvere questo problema, per cui cade.
 E’ interessante cosa succede quando questo sforzo cade: improvvisamente ti rendi conto mentre resti cosciente, che non c’è nulla in tutto l’universo che sia divisibile. Nulla, niente al mondo è divisibile. E’ allora che yama ha un senso; solo allora, quando quel cosiddetto ego, che in vari modi si è sforzato, è arrivato alla sua fine naturale (la fine naturale è che non era mai), ti rendi conto che non c’è bisogno di restrizione.
Allora yama, niyama, nirodha, che possono tutti significare esattamente la stessa cosa, non coinvolgono alcuno sforzo. Lo sforzo è solo qualcosa che tu ed io abbiamo l’ambizione di ottenere; abbiamo diverse ambizioni: una persona vuole diventare multi-miliardario, si dà da fare, si sforza, un’altra vuole rinunciare a tutto e diventare un grande yogi: si sforza, si sforza.
Una persona pensa di voler uccidere tutti quelli che gli sono d’ostacolo, perché vuole vivere felicemente, un’altra dice “voglio tagliare il mio corpo a pezzi e darlo in pasto ai cani, in modo che i cani siano felici”! E’ la stessa cosa. Nessuna è superiore all’altra. Se yama non è conosciuta come inseparabile da samyama o meditazione, ogni tipo di pratica bizzarra e grottesca può venirne fuori; ecco un paio di esempi folli. Sapete quali sono gli yama:

ahimsā, satya, asteya, bramhaciarya, aparigraha - yamah. (Yoga Sutra II.30)

Ahimsā: non violenza. Buddha diede grande enfasi ad ahimsā; il suo insegnamento riguardo ad ahimsā è bellissimo, ad ogni modo, quello che popolarmente si conosce è: non uccidere.
Questo insegnamento era stato trasmesso a della gente della Mongolia o del Tibet, regioni dove c’è pochissimo da mangiare e dove è impossibile coltivare qualsiasi tipo di vegetale. L’unica dieta di queste popolazioni è la carne. Alcuni andarono dall’anziano capo e chiesero cosa dovessero fare, avendo ricevuto quell’insegnamento del Buddha. Il capo disse: “Portatemi il libro, studiamolo bene, leggetelo”. Il discepolo lesse: “Non farai cadere una goccia di sangue di un essere vivente per tua mano!” - Ma questo è semplice! Perché non lo avete letto prima? Portatemi un capro o un agnello e del cotone. Mettete questo cotone in tutte le aperture dell’animale, poi strangolatelo. Ora è morto, potete aprirlo e prepararlo per mangiare. Mentre era vivo non è uscita alcuna goccia di sangue, ora è morto: potete fare quello che volete! Questo è il tipo di perversione che sorge. Questo non è ahimsā.

Satyam: dire la verità; ho anche sentito la storia di un giovane (in Sud Africa) che si unì ad una certa setta, basata sull'aderenza assoluta ai dieci comandamenti. Il giovane si accorse che sua madre aveva un amante: “Una relazione di adulterio”, quindi andò e rese pubblico il fatto, lo disse a chiunque incontrava. Poi, il padre iniziò la causa di divorzio e chiedevano al giovane come mai stesse facendo una cosa del genere contro sua madre. “Ho giurato di dire la verità!” Ma che tipo di verità è questa? Non ti accorgi che stai facendo del male a qualcuno? Questa non è verità.

Nello stesso modo asteya, aparigraha ... Tutti questi yama sorgono in te se entri in samadhi, se l’attenzione è rivolta dall’oggetto al sé. E’ il sé che genera tutti questi cattivi pensieri, parole, azioni.
E’ reale questo sé? E’ reale l’esperienza di felicità, piacere, profitto, nome, fama? Qual è il carattere di queste esperienze? Chi è l’io che brama queste esperienze? Quando quell'investigazione ha inizio, stai praticando pratyahara; quando l’investigazione diventa altamente concentrata, c’è dharana e quando l’investigazione diventa molto attiva dentro, c’è dhyana, meditazione. Poi, all’improvviso, tutto sembra cadere e...sei lì: samadhi.