Yoga Sutra, II, 02

II. 2. samādhi bhāvanārthah kleśa tanū karaņārthaś ca

Una volta che viene chiaramente compreso come l'istantanea realizzazione dell'unità cosmica, che è lo yoga, non è il prodotto di alcuno sforzo: come può uno "praticare" tale unità?
Sicuramente lo yoga attivo è insegnato, non perchè tale pratica conduca alla realizzazione dell'unità, ma perché può aiutare nel dirigere la propria attenzione verso l'illuminazione, e via dagli elementi che causano l’agitazione mentale, i quali, come risultato di questo voltarsi via, s’indeboliscono.

Quest’aforisma è d’importanza fondamentale e spesso se ne sottovaluta il messaggio vitale. L’autodisciplina e la resa a Dio si praticano per eliminare gli ostacoli sul sentiero del samādhi, per essere fermamente stabiliti nel samādhi e per la cessazione dei disturbi psicologici – o almeno per il loro indebolimento; se questo non accade, la propria autodisciplina è inutile. Quali che siano le cause che creano la confusione nella tua vita, quelle cause devono essere indebolite, anche se non possono completamente scomparire. Se, mentre tenti di portare la disciplina nella tua vita, diventi sempre più nervoso, eccitabile, irritabile, ecc, a che serve la tua autodisciplina?

Samādhi bhāvanārthah – siamo condotti di momento in momento alla comprensione della realtà: lo yoga ci apre gli occhi alla realtà. Samādhi è uno stato trascendentale; in assenza della conoscenza del Sé, questo “stato trascendentale” diventa un’altra espressione che consiste di due altre parole nel tuo vocabolario. Lo stato trascendentale dev’essere definito, così come definisci il tuo stato presente come stato di veglia. Ma samādhi non è né uno stato, uno stadio né l’assenza o la presenza di qualcosa. E’ la realtà che esiste così com’è, senza la minima interferenza da parte dell’io. Quando l’io – che descrive, identifica, vi pone etichette e vi proietta le sue idee – è assente, è allora che la verità riguardo la realtà risplende. Allora non puoi dire, “Io comprendo la verità”, perché questo implica che ci sia un io che la comprende, come se “io” e la verità fossero separati. No! La verità soltanto risplende.
Senza samādhi bhāvanārthah, stai solo disciplinando te stesso, così diventi una brava persona e la gente ti ammirerà. Non funziona. Nessuna motivazione, se non quella della tua attenzione verso l’illuminazione, è valida; perché tutte le tue motivazioni non faranno altro che tessere una rete più grande e mortale intorno a te, per intrappolarti. Perciò, il tuo studio delle scritture, la pratica della ripetizione del mantra (japa) e la resa a Dio devono condurti alla conoscenza della verità del Sé, samādhi.
Se, nella resa a Dio, guardi dentro di te per vedere cosa dovrebbe significare questa resa, cioè: “Ora che mi sono affidato a Dio devo essere totalmente non resistente”, ancora una volta l’io definisce la resa come questa o quell’altra cosa. Può invece l’io completamente svanire e la resa semplicemente essere, senza essere definito dall’io?
Ecco che la resa a Dio, in relazione al samādhi, ha un significato diverso. Non è per niente un’azione meccanica, ma una resa che costantemente si auto-rinnova, nella quale solo l’io, che separa definisce e distrugge è assente. C’è vigilanza perpetua, perché l’intero universo è pieno di questa coscienza, la quale è consapevole.
Queste pratiche indeboliscono anche – non distruggono – i kleśa. Cosa sono i kleśa?