BHAGAVAD GITA, INTRODUZIONE, CAP. I


 

IL CANTO DEL BEATO

Bhagavad Gita

In letture quotidiane

Commento di

Swami Venkatesananda



Associazione Yoga Sivananda


Traduzione della quarta edizione inglese: 1984
"THE SONG OF GOD"
Pubblicato da
The Chiltern Yoga Trust
P.O. Elgin, 7180
Cape Province
Rep. of South Africa

Associazione Yoga Sivananda

Via cinque olivi, 4 - 66054 Vasto, CH
yogavasto@live.it
cell. 368 3047087
http://venkatesananda.blogspot.it



INTRODUZIONE

La Bhagavad Gita ha catturato l'immaginazione di pensatori, uomini e donne, in ogni parte del mondo. E' stata tradotta in molte lingue e conta tra i suoi devoti, persone appartenenti a molte religioni e nazionalità. L'unicità del messaggio della Bhagavad Gita è nel fatto che i suoi seguaci non devono necessariamente appartenere ad una religione o gruppo religioso.

"Ogni uomo dedito al suo proprio dovere ottiene la perfezione", dichiara il profeta dalla visione cosmica, Sri Kŗşna il quale continua spiegando succintamente come questa perfezione è ottenuta.

"Colui dal quale tutti gli esseri hanno avuto origine e dal quale tutto questo è pervaso – adorando Lui (Dio) attraverso il giusto compimento del proprio dovere, l'uomo ottiene la perfezione".                                                                                                                                   (18,46)

Ecco dunque un vangelo unico, che non interferisce con la propria posizione nella vita, non distrae dai propri doveri, non disturba la fede né attrae a sviare dal sentiero scelto, ma illumina quello stesso percorso e rafforza il proprio ideale. Il suo scopo proclamato è di liberare dalle apprensioni e dall'ansia, di proteggere da se stessi – il proprio sé inferiore - pieno di desideri sregolati e pregiudizi ingiustificati, deluso da un'antica ignoranza e perciò ossessionato da paure senza senso e calamità immaginarie.

Dono di Devozione

ai piedi di

GURUDEV SWAMI SIVANANDA


E' sempre stato sull'orlo del miracolo. Gurudev mi diede le sue benedizioni e mi inviò oltre oceano nel 1961 - e mi fu chiesto di parlare, parlare e parlare a un pubblico d'ogni tipo in tanti paesi diversi. Prima di salire sul podio e dopo esserne sceso, ho sempre dubitato di meritarmi di stare lì, eppure ho sempre avuto l'esperienza di una trasformazione interiore nel momento in cui offrivo la preghiera al guru: Gurudev prendeva il mio posto. Era lui che parlava ed io sono sempre stato il primo ascoltatore.
Io non sono niente. E' Gurudev che ha portato avanti la sua missione: che l'abbia fatto attraverso questo particolare strumento, è una benedizione per lo strumento stesso, che nel processo è stato corretto, purificato e, nonostante la sua indegnità, glorificato, ma nessuno deve mai dimenticare che ogni gloria, ogni lode dev'essere offerta a Gurudev.
Possa la sua luce splendere per sempre nei nostri cuori.




PRESENTAZIONE
(Alla terza edizione)
SRI SWAMI CHIDANANDA
Presidente, The Divine Life Society (Sede centrale mondiale).
Rishikesh, India.
 
Omaggi al Divino. Sia gloria al Signore che ci ha donato la divina saggezza manifestandosi come un maestro del mondo nel beato Sri Kŗşna, e impartendo all'umanità gli insegnamenti unici e universali della Srimad Bhagavad Gita. Adorazioni al Signore Kŗşna, maestro carissimo all'umanità, che ha donato la saggezza della Gita. La mia sincera e sentita ammirazione e silenziose prostrazioni ai piedi di Sri Swami Venkatesanandaji Maharaji che ha realmente servito da messaggero del beato Signore Krshna stesso, rendendo i suoi insegnamenti della Gita alla portata delle  innumerevoli persone che conoscono l'Inglese, in tutto il mondo.
La Srimad Bhagavad Gita è una scrittura unica per una varietà di ragioni. Essa ci presenta, entro la sua breve estensione di settecento versi nella maniera più compatta ma completa, la quintessenza stessa dell'antica religione vedica dell'India. Contiene nelle sue pagine un messaggio brillante e profondamente significativo per l'intera umanità, per tutti i tempi a venire. La Gita contiene una stupefacente rivelazione dell'antico mistero dell'uomo, l'universo e Dio. Essa è, nello stesso tempo, un'esposizione della natura della realtà trascendentale, un discorso sull'arte suprema di accostarsi al divino e di entrare in una durevole e splendida relazione con Lui, ed è nello stesso tempo un meraviglioso manuale sulla scienza dell'auto-realizzazione contenente le istruzioni pratiche sui processi di raggiungimento dell'esperienza di Dio. Non c'è da meravigliarsi dunque che ora, in queste ultime decadi del ventesimo secolo tutti i veri aspiranti all'esperienza divina tributino lodi alla Gita, come ad uno dei tesori più preziosi nella comune eredità dell'umana saggezza di questo mondo; essa, infatti, contiene un messaggio senza tempo ed i suoi insegnamenti sono di validità eterna.
"TheSong of God" costituisce una tappa indicativa negli annali della storia religiosa di questo secolo, facendo affiorare le acque vive della saggezza spirituale e convogliandole e facendole unire al flusso vivente del comune corso della vita quotidiana dell'uomo. Questa confluenza ti aiuta a rendere divina la tua vita d'ogni giorno, la solleva dalla terrena fossilizzazione elevandola ad una nuova dimensione spirituale. Distribuiti, come sono i discorsi, per un periodo di 366 giorni, quest'ammirevole volume, il più riuscito nel fornire in maniera effettiva tanto una manna divina quanto dei pratici esercizi spirituali per tutto l'anno, può ben diventare il compagno di tutta la tua vita.  E' qui il grande valore per il possessore di questo libro.
Il mio fratello spirituale, il riverito Swami Venkatesanandaji Maharaji è ora un ben conosciuto oratore e maestro spirituale in quasi tutte le parti del mondo, nei due emisferi. Egli ha davvero posto il mondo in un debito di gratitudine per mezzo di questi discorsi quotidiani amorevolmente compilati dai suoi fedeli seguaci nella forma di questo libro. Essi contengono letture quotidiane istruttive, ispiranti, informative e intuitive che possono aiutare il lettore a trasformare le sue attività e a spiritualizzare la propria intera vita. Il segreto del successo del venerabile autore in quest'opera è la sua personale vita spirituale nella quale egli stesso s'impegna a vivere sinceramente gli insegnamenti della Gita mantenendo sempre interiormente lo stato di yoga, anche nel mezzo della sua attiva missione, nella quale porta avanti l'opera di risveglio spirituale del suo Guru, Swami Sivanandaji. Per Swami Venkatesanandaji questo lavoro è un devoto servizio al prossimo e un atto d'adorazione offerto a Dio che vive in ogni essere. Tale servizio d'adorazione è il fondamento della sua dedicata vita. I suoi insegnamenti hanno un loro meraviglioso fascino, una potente attrazione e forza spirituale, perché il venerabile autore ha vuotato se stesso del suo ego e, privo dell'idea di essere lui a fare, è diventato un degno strumento nelle mani di Dio e del suo santo Maestro, Swami Sivananda, di venerabile memoria. Portando l'applicazione pratica degli insegnamenti spirituali della Gita nella vita quotidiana dell'uomo nel mondo attuale dell'era dello spazio, Swami Venkatesanandaji ha portato ulteriormente avanti l'opera del suo amato Guru, il quale ha esposto alle persone di questo secolo il Vedanta nella vita quotidiana, lo Yoga nella vita quotidiana e le Upanishad per l'uomo indaffarato.
E' una grande gioia per me esprimere i miei punti di vista come presentazione di questo libro prezioso e colgo quest'opportunità per augurare a Swamiji un futuro pieno di lunghi anni di progresso e successo nel suo nobile servizio a Dio e all'uomo. Prego per le più alte benedizioni e illuminazione divina su di lui. Possa questo libro avere l'ampia diffusione che veramente merita.

19 Novembre 1971
                                                                            Swami Chidananda, Divine Life Society,
                                                                          P.O.Shivanandanagar,
                                                                            via Rishikesh,
                                                                            Distr. Tehri Garhwal,
                                                                            P.I.N. 249 192
                                                                            U.P.  INDIA.



Prefazione all'edizione inglese
E' possibile nel mondo d'oggi vivere una vita di pace e gioia, libera dalle tensioni, dall'ansietà, dalla paura e dalle frustrazioni? Sì! La Bhagavad Gita illumina questa possibilità.
In questo volume la traduzione letterale dei versi in Sanscrito è quella di Gurudev Swami Sivananda.[1] Poi seguono alcuni pensieri offerti ai vostri piedi. Non si tratta di un commento alla Bhagavad Gita, ma può essere un utile supplemento ai commenti standard! Ha lo scopo di essere uno stimolo spirituale, per aiutare a comprendere meglio la scrittura.
Il miglior uso è quello di studiarne una pagina al giorno, e poi meditare sui versi stessi. Per grazia di Dio e del guru, riceverete più luce da dentro di voi, ed una sempre maggiore comprensione della verità spirituale rivelata nella scrittura. Questo è il solo obiettivo per cui quest'opera d'amore è offerta ai piedi del Signore presente nei vostri cuori.
Ecco il racconto del Mahabharata in breve:
Due fratelli, Dhŗtarāştra che era nato cieco, e Pandu che era nato anemico (bianco), avevano rispettivamente cento figli cattivi e cinque figli buoni. I figli cattivi del primo volevano impossessarsi della parte del regno spettante ai loro cugini e provarono con ogni mezzo, lecito o illecito, a soddisfare la loro ambizione. La grazia di Dio, salvò i figli di Pandu nelle varie situazioni di pericolo in cui vennero a trovarsi.
I cento cattivi con un inganno fecero esiliare i cinque pii dal regno per un periodo di tredici anni e quando questi tornarono, dopo aver completato con successo il periodo d'esilio, i cugini cattivi rifiutarono arrogantemente di cedere la parte del regno che loro spettava di diritto.
Il Signore Kŗşna, che era amico dei cinque figli pii, fece un ultimo tentativo per scansare il conflitto armato, che divenne però inevitabile.
Imparziale, il Signore Kŗşna offrì di aiutare ambo i contendenti: potevano scegliere tra lui stesso ed il suo vasto esercito. I cento cattivi scelsero l'esercito e i cinque pii furono felici di avere il Signore Dio incarnato al loro fianco. Kŗşna si offrì come auriga di Arjuna, uno dei cinque pii.
Dhŗtarāştra, il re cieco, era compiaciuto del fatto che la potenza superiore dei suoi figli, la superiorità numerica del loro esercito e la presenza dalla loro parte di Bhīşma, di valore impareggiabile – che non poteva essere ucciso contro la sua volontà – avrebbe assicurato loro la vittoria.


Nel decimo giorno di battaglia, però, Bhīşma cadde. La fede del re cieco fu scossa ed egli chiamò il suo ministro intuitivo, Sanjaya, perché gli narrasse gli eventi della guerra. Ora leggete …








Bhagavad Gita                                Cap. I                                                                    vv. 1, 2


1. Dhŗtarāstra chiese: Che cosa fecero i Pāņdavā e i miei figli, dopo che si furono riuniti sulla sacra terra di Kurukşetra, desiderosi di combattere, O Sanjaya?
 2. Sanjaya rispose: Avendo osservato l'esercito dei Pāņdavā schierato in ordine di combattimento, il re Duryodhana, si accosta al maestro e tiene questo discorso.
Dhrtarastra era il padre cieco di Duryodhana e dei suoi fratelli. Era cieco nel suo affetto per i figli, cieco al dharma (rettitudine o dovere) e aveva una cieca fede che la forza fisica avrebbe trionfato. La caduta di Bhishma, il decimo giorno della battaglia, riportò alla sua mente la legge inalterabi­le - il dharma o la verità soltanto trionfa.
 Sanjaya con discrezione, si riferisce a Duryodhana come 'Il Re'. E' caratteristica del saggio non ferire i sentimenti e il parere di alcuno in qualunque circostanza. Egli non approfitta neanche degli errori di un opponente. E' pieno di comprensione anche per i cattivi nelle loro sofferen­ze fisiche e mentali.
La Mahabharatha ci presenta Duryodhana come il malvagio. Non c'era peccato che egli non avesse commesso. Non aveva rispetto per gli anziani. Aveva molta fede nella forza dei potenti e poca nella bontà dei pii. Eppure, in questo momento cruciale, quando sta per intraprendere una guerra che potrebbe ben significare vita o morte per lui, la prima persona a cui pensa non è uno dei suoi cattivi consiglieri né il gran generalissimo, ma il suo maestro, Drona. Senza la grazia e le benedizioni del maestro, nessun'impresa materiale o pratica spirituale può mai dare frutto. Questa convin­zione era così profondamente radicata nell'Indiano antico che, persino il cattivo Duryodhana ne era pieno.



I                                                                                                                     vv.   3-6
Osserva, o maestro, l'esercito potente dei Pāņdavā, schierato dal tuo saggio discepolo, il figlio di Drupada.
Qui vi sono eroi, grandi arcieri pari in battaglia a Bhīma e ad Arjuna, Yuyudhāna, Virāta e Drupada, dal grande carro, (grandi guerrieri).
Dŗşţaketu, Cekitāna e il valoroso re di Kāśi, Purujit, Kuntibhoja e Śaibya, eroe tra gli uomini.
Il forte Yudhāmanyu e il prode Uttamauja, il figlio di Subhadra (Abhimanyu) e i figli di Draupadī, tutti grandi combattenti sul carro.


Nessun uomo è perfetto. Chi è buono ha i suoi difetti. Al malvagio bisogna accreditare pensieri sublimi e azioni cavalleresche, quantunque rari possano essere. L'uno e l'altro sono soggetti a tentazioni, ma il buono si scrolla di dosso il male dopo un breve incontro; così come il cattivo rifugge la bontà, con la stessa rapidità!
Accostatosi al maestro, Duryodhana non si prosterna ai suoi piedi chiedendogli la benedizione, né gli chiede guida o consigli. La sua natura aggressiva ed arrogante immediatamente prende il sopravvento anche sullla gurubhakti (devozione al maestro). Qual'è il risultato? Parole aspre e ordini! "Guarda questo possente esercito del nostro nemico: è schierato da uno che tu hai istruito!"
Il cuore del cattivo trema per la paura e l'esercito dei Pāņdavā, benché numericamente più debole, sembra essere un "esercito possente". La volontà vacilla davanti ad un senso di colpa, e lo sguardo si offusca.




I                                                                          7-10

Sappi pure, o migliore tra i brāhmanā, i nomi dei più distinti 
comandanti del mio esercito; te li menziono per tua conoscenza.
Tu, o Signore, e Bhīşma, Karna, Kŗpa, vittorioso in battaglia, 
Aśvattāmā e Vikarna e anche il figlio di Somadatta.
E anche molti altri eroi pronti a dare la vita per me, 
dotati di armi di vario genere, tutti esperti nella guerra.
Questo nostro esercito con Bhīşma a capo è insufficiente, 
mentre quel loro esercito, retto da Bhīma è sufficiente.[2]

Che insolenza! C'è forse bisogno di dire tutte queste cose al maestro? Inoltre 
Duryodhana ha paura che il suo esercito sia insufficiente. Questa singolare e 
inconfondibile caratteristica del malvagio è la vanità e la belligeranza, alla ricerca 
di un sempre maggiore potere distruttivo.
"Questi grandi eroi sono pronti a dare la vita per me". 
Forse Duryodhana ha già il presagio della loro sconfitta, l'ansietà 
riempie il suo cuore perverso. Vede l'esercito nemico nella sua vera luce: 
formidabile e sufficiente, mentre il suo è insufficiente. I due fattori vitali 
che assicurano la vittoria sono dal lato dei Pāņdavā: Dio e la sua giustizia, 
per usare le parole della Sacra Bibbia. Senza di questi, la potenza ed il 
numero costituiscono solo delle responsabilità.
Forse in un lampo di momentanea intuizione, Duryodhana si rende conto 
dell'ingiustizia della sua causa: anche ai cattivi è data questa possibilità. 
Quelli coraggiosi si scrollano il male di dosso, invece di essere sopraffatti 
da un falso senso di dignità o di vano desiderio: aver sbagliato una volta è 
sufficiente, se in noi è rimasta un po' di saggezza.


I                                                                     11-13

Perciò, voi tutti, ognuno dalla rispettiva posizione, nelle molteplici 
divisioni dell'esercito, proteggete Bhīşma soltanto.
Il nonno glorioso di Duryodhana (Bhīşma), il più anziano dei Kauravā, 
ruggì allora come un leone e dette fiato alla sua conchiglia, per rincuorarlo.
Ecco che, d'un tratto, suonarono conchiglie e grancasse, tamburi, 
timpani e corni e il riverbero fu tumultuoso.

Dimenticando con chi sta parlando, Duryodhana istruisce il venerabile maestro: 
"Proteggi il comandante in capo".  Il giusto impulso di rivolgersi al maestro nell'ora 
cruciale è soffocato dalle accumulate cattive tendenze, a loro volta rafforzate dalla 
frequente ripetizione e dall'insaziabile desiderio di potere. Anche nell'ora del 
pericolo la testa altezzosa del malvagio rifiuta di chinarsi, e il suo cuore 
rifiuta di pregare. L'avversità spesso distoglie l'uomo dal cammino del male, 
ma questo è vero solo di chi è al confine tra il bene e il male. Abbiamo 
visto che la stessa calamità che spinge uno ad abbandonare il cattivo sentiero 
e a sforzarsi di diventare santo, spinge un altro nei labirinti più oscuri del vizio. 
Solo la delibera­ta coltivazione delle buone abitudini e tendenze può portare 
ad un condizionamento salutare del nostro cuore che, anche se non si rivolge 
naturalmente a Dio, si volgerà a lui nel momento in cui riceve un trauma.
Duryodhana parla a Drona. Questi non risponde! Il comportamento offensivo 
e impudente del malvagio merita un solo trattamento - l'indifferenza.
Il comandante in capo, in ogni modo si fa avanti e, senza una parola, d
à il segnale d'inizio della battaglia.


I                                                                        14-19

Allora Kŗşna e Arjuna, seduti sul loro magnifico carro 
aggiogato a cavalli bianchi, suonarono le loro divine conchiglie.
Kŗşņa soffiò nella Pāñchajanya, Arjuna soffiò la Devadatta e 
Bhima dalle terribili imprese, soffiò nella grande conchiglia Paundra.
Yudhişthira soffiò nella Anantavijaya, Nakula e Sahadeva nella
Sughosa e Manipuspaka.
Il re di Kāśi, eccellente arciere, Śikhandin, il grande eroe, 
Dhrştadyumna e Virāta e l'invitto Sātyaki,
Drupada e i figli di Draupadī, e Abhimanyu dalle armi potenti, 
soffiarono nelle loro rispettive conchiglie.
Quel suono tumultuoso lacerò i cuori dei Kauravā,
facendo tremare il cielo e la terra.

La conchiglia del Signore è chiamata Panchajanya, la matrice dei cinque elementi o Tanmatra. 
Il suono che emana da questa conchiglia è il supremo Om-kara, la vibrazione che 
è l'origine di tutta la creazione.
Il carro di Arjuna ha il Signore stesso come auriga: quando il Signore stesso è l'auriga, 
on meraviglia che i cavalli siano bianchi, un colore che simboleggia la purezza. 
Se cediamo al Signore le redini della nostra mente, allora è certo che i nostri 
sensi saranno purificati e tutte le loro funzioni saranno pure e libere dal peccato.
La fine della notte e l'alba del nuovo giorno sono eventi indesiderati per i ladri 
e le prostitute. Persino il fausto suono della conchiglia del Signore e 
dei suoi devoti ferisce il cuore del cattivo. La paura non è fuori, ma dentro di loro.


I                                                                         20-23

Poi, vedendo i componenti dell'esercito di Dhŗtarāstra, 
disposti in ordine di battaglia e l'imminente scontro delle armi, 
Arjuna, la cui insegna era quella di una scimmia, sollevò il suo arco
e così disse a Kŗşņa:
Conduci il mio carro nel mezzo dei due eserciti, o Kŗşņa, 
affinché io possa vedere coloro che stanno sul campo desiderosi di combattere, 
e sappia chi sono quelli che devo affrontare, poiché la battaglia sta per cominciare.
Desidero guardare costoro che si sono riuniti qui  a combattere 
per compiacere Duryodhana dalla mente perversa.

Arjuna è il figlio di Pandu, il re "bianco", il bianco simboleggia la purezza; 
dalla purezza sorgono qualità positive. Nella Bhagavad Gita, Arjuna è il discepolo, 
l'aspirante; rappresenta la persona buona che, per il momento non è ancora 
stabile nella sua saggezza. L'insegna della scimmia irrequieta allude a questo! 
Solo per grazia di Dio è possibile dominare la tendenza all'irrequietezza della mente, 
altrimenti, come Arjuna, che ora è entusiasta della guerra, ma poi cambia opinione, a
nche noi oscilleremo costantemente tra lo zelo e la disperazione, nella nostra vita spirituale.
Il Signore è sempre pronto a salvare il suo devoto, anzi gode nel diventare suo servo! 
Il Signore dell'universo acconsente a farsi auriga di Arjuna. 
Quanta umiltà, quanto amore! L'amore di Dio per il devoto è infinitamente 
più grande anche dell'amore che il più grande devoto potrà mai avere verso Dio. 
Tantissimi racconti indiani sono esempi di come il Signore è sempre pronto, i
n ogni maniera, a servire il suo devoto.


I                                                                          24-27

Sanjaya disse: Così, come Arjuna gli aveva chiesto, 
avendo condotto quello che era il migliore dei carri, nel mezzo dei due eserciti, 
davanti a Bhīşma e Drona e a tutti i governanti della terra, Kŗşņa disse: 
"Guarda, o Arjuna questi Kurū qui riuniti".
Allora Arjuna vide ivi schierati, padri e nonni, maestri, zii, fratelli, 
figli, nipoti e compagni, suoceri e anche amici nell'uno e nell'altro esercito.
Era giunto il più grande dei momenti nella storia dell'umanità, il momento 
in cui lo yoga della Bhagavad Gita stava per essere rivelato. Arjuna fu il canale prescelto. 
Il Signore conduce Arjuna in una posizione tale da creare lo scenario ideale: 
ferma il carro proprio davanti alle due persone per le quali Arjuna
ha il più grande amore e rispetto, Bhisma e Drona. 
Non solo, miracolosamente egli provoca un cambiamento nella visione di Arjuna.
Arjuna, che solo un momento prima, pensava all'esercito dei Kaurava come a 
quello "nemico", "perverso", ecc., d'un tratto vede tutti i guerrieri sotto una luce diversa, c
ome parenti e amici. L'entusiasmo per la guerra cede il posto all'angoscia e alla confusione.
Le circostanze e le situazioni esterne hanno solo un valore intrinseco neutro: 
è la propria mente che attribuisce loro piacere e dolore, bene e male. 
Come vedremo, questa è proprio l'essenza dello yoga della Bhagavad Gita 
e il Signore Krshna crea il clima più adatto alla sua rivelazione, mettendo 
in evidenza il contrasto tra i due atteggiamenti di Arjuna.



I                                                               28-31

Osservando tutti quei parenti così disposti in ordine di battaglia, 
così parlò Arjuna, turbato e in preda a grande compassione: 
Vedendo questi, i miei parenti, o Kŗşņa, schierati e desiderosi di combattere, 
le mie membra vengono meno e la mia bocca diventa secca, 
il mio corpo trema e i capelli mi si rizzano, l'arco scivola dalle mie mani 
e tutta la pelle mi arde. Non riesco neanche a stare in piedi e la mia mente è confusa. 
E vedo cattivi presagi, o Keśava, non vedo alcun bene nell'uccidere i
miei parenti in battaglia.

Il seme di tutti i mali viene esposto magnificamente davanti ai nostri occhi: 
la 'sofferenza' di per se non ci commuove; per la morte non ci angosciamo. 
Non versiamo lacrime quando leggiamo di terremoti e incidenti aerei. 
Solo l'identificazione del nostro sé con le persone coinvolte dà luogo all'angoscia. '
Un ragazzo è affogato nel mare' è una notizia; 'Mio figlio è affogato'' 
è una tragedia che ci trafigge il cuore! Tutti e due i ragazzi erano esseri umani, 
nati da genitori, ma il secondo era 'mio figlio', ed è questo che fa tutta la differenza.
La delusione è uno stato mentale, ma ha un effetto devastante anche sul nostro fisico; 
la medicina psicosomatica ha ormai scoperto la verità che la nostra salute dipende, 
non tanto da cibi salutari e tonici, da muscoli forti e membra robuste, 
ma dallo stato della nostra mente che, in ultima analisi, 
dipende da un corretto atteggiamento verso la vita. 
La Bhagavad Gita ci dà questo atteggiamento corretto.
I 'cattivi presagi': li vide veramente Arjuna? Non dobbiamo dimenticare 
che i Pandava erano i vittoriosi. Forse i presagi preannunziavano la distruzione 
dei loro figli, o forse la paura e la confusione che avevano 
sopraffatto Arjuna gli facevano avere delle allucinazioni.


I                                                                     32-33
           
Perchè non desidero la vittoria o Kŗşņa, né il regno né i piaceri. 
A cosa ci serve il dominio, o Govinda, i godimenti e la vita stessa?
Coloro per i quali noi desideriamo regno, godimenti e piaceri, 
stanno qui in battaglia, rinunciando alla vita e alle ricchezze. 

Vasishtha, Krshna e Buddha hanno proclamato all'unisono che il desiderio soltanto 
è la causa prima di ogni tristezza e della trasmigrazione; qui Arjuna proclama 
gli stessi pensieri e la stessa saggezza, eppure ha torto!
Dall' aspetto esteriore, il saggio può comportarsi come un folle, ma un folle
non è un saggio.  Tra fuggire e rinunciare c'è una differenza vitale: 
l'atteggiamento interiore! Krshna non si fa promotore della fuga,
ma ravviva in noi il vero spirito della rinunzia.
"Non voglio vittoria o piaceri, perciò non combatterò", dice Arjuna.
"Non devi correre dietro la vittoria o i piaceri, neanche il piacere 
di astenerti dalla battaglia, perciò devi combattere", dice Kŗşņa.
La questione è la stessa, ma le conclusioni sono diverse perché 
diverso è l'approccio interiore, perciò non dobbiamo credere ciecamente al nostro intelletto, 
ma dobbiamo chiedere un saggio consiglio in modo che l'intelligenza interiore 
possa essere risvegliata.
Di nuovo: "È per i nostri parenti" che desideriamo il regno, ecc., perciò non combatterò, 
visto che questi dovranno essere uccisi in guerra", dice Arjuna. "No, non per loro, 
ma per Dio, per compiere il tuo dovere, che è la volontà di Dio, combatterai", 
risponde il Signore.
Il sentiero del dovere è spesso spiacevole per la mente (la cui tendenza è cercare i piaceri) 
o per la personalità egocentrica. Occorre una vigilanza costante per evitare 
che l'insincerità e la stoltezza velino la verità.


I                                                            34-37

Maestri, padri, figli e anche nonni, zii, suoceri, nipoti, cognati e altri parenti: 
questi non desidero uccidere, o Krshna, pur se essi uccidono me, 
neanche per ottenere il dominio sui tre mondi, 
non li ucciderò certo per il dominio della terra.
Uccidendo questi figli di Dritarastra, quale piacere può essere nostro, o Krshna? 
Solo il peccato otterremo per aver ucciso costoro.
Non dobbiamo, perciò, uccidere i figli di Dritarastra, nostri parenti; 
come possiamo, infatti, essere felici uccidendo la nostra gente?

Il verso 35 ricorda le parole del grande eroe spirituale della Kathopanishad, Naciketas; 
in quel caso il guru, Yama è compiaciuto, ma qui il guru, Krshna non applaude 
alle parole disinteressate di Arjuna. La mera avversione per i piaceri materiali non ha valore senza la devozione a Dio; può solo condurci ad una tristezza auto-imposta e ad una vita 
appesantita dalla povertà. Dovremmo invece, secondo le parole di Gurudev Swami Sivananda: "Staccare la mente dagli oggetti e attaccarla al Signore".
Il Signore, avendo dimora nel cuore di ognuno, sa che il cuore di Arjuna è velato 
dall'ignoranza spirituale e, perchè questa si manifesti, pone il carro tra Bhisma e Drona. 
L'abilità di Arjuna tesse un velo di logica per nascondere la sua ignoranza e debolezza, 
il principe dimentica che è dovere dei governanti punire i malvagi e suggerisce 
che anche quell'azione è colma di peccato! Perchè? "Perchè sono nostri parenti". 
Tutti gli esseri animati e non sono creature di Dio, 
ma la parentela è una nostra creazione ed è fonte di dolore.



I                                                             38, 39

Anche se questi, la cui ragione è sopraffatta dall'ingordigia, 
non vedono alcun male nella distruzione delle famiglie 
e nessun peccato nell'essere ostili alle persone care, 
perché non dovremmo noi, che vediamo chiaramente 
il male della distruzione delle famiglie, voltarci via da questa colpa?

E' più facile riconoscere l'errore negli altri che dentro di noi; i Kaurava erano avidi, avrebbero usato qualsiasi inganno per mantenere la sovranità del regno usurpato: "Essi non si rendono conto del male che fanno uccidendo i parenti, noi siamo più saggi, perciò non dobbiamo farlo" è l'argomento addotto da Arjuna. La vanità di uno, copre la trasgressione dell'altro con un ragionamento apparentemente nobile.
Nessuna persona saggia giustificherà mai la guerra, eppure da tempi immemorabili vi sono state delle persone sagge che hanno combattuto quelle che esse considerarono guerre giuste. La guerra di per sé è un male, ma quando è l'unico rimedio per spodestare un'ingiustizia più grande, che ha usurpato il trono al dharma[3], la guerra diventa una necessità. Allora e solo allora combattere è dharma e tirarsi indietro è adharma! Come la mano del saggio chirurgo è guidata da una mente calma e da un cuore amorevole per eliminare una tumefazione, così il sovrano saggio e leale dev'essere guidato da una chiara visione del dharma e da un profondo amore per tutto il suo popolo per sconfiggere con fermezza il male.
Arjuna sbaglia ad affermare che non deve ucciderli, perché sono suoi parenti, né Krshna gli chiede di ucciderli perché sono suoi nemici. E' solo perché sono fautori e sostenitori dell'ingiustizia (adharma) che è dovere di Arjuna, come principe, sterminarli; se il dharma fosse dalla parte dei Kaurava, anche se si trattasse dei suoi nemici, Krshna chiederebbe ad Arjuna di guardare dentro di sé e distruggere il suo vero nemico – adharma.


I                                                           40-42
Nella distruzione di una famiglia, i suoi riti antichissimi periscono e, 
nella distruzione della spiritualità, l'irreligiosità si abbatte sull'intera famiglia. 
Con la predominanza dell'irreligiosità, o Krshna, 
le donne della famiglia diventano corrotte e questo determina la confusione delle caste. 
La confusione delle caste porta all'inferno i distruttori della famiglia, p
oiché cadono i loro antenati, privati delle offerte di riso ed acqua.
Il ragionamento di Arjuna è certamente valido ed inoppugnabile, ma non in quel contesto.
Come fa notare Aldous Huxley nella sua "Perennial Philosophy", il caos nel mondo d'oggi è in parte attribuibile alla caduta del sistema delle caste (per quanto questo non corrispondeva all'ideale del sistema delle caste cui si riferisce Arjuna). Nessuno sembra sapere qual è il proprio ruolo e, quando sorge un conflitto interiore, si è tirati in diverse direzioni da teorie e speculazioni d'ogni sorta. Non c'è di che meravigliarsi se siamo vittime della 'tensione', dello stress e dell'esaurimento nervoso.
Quando le persone colte di una società sono uccise in guerra o costrette ad allontanarsi, lo 'spirito' dei costumi, delle tradizioni e dei riti si perde, quel che resta è la carcassa morta di un rituale cui le masse restano legate. Quando si perde lo spirito, si perde anche la correttezza ed il rispetto. Le custodi della rettitudine, le nostre donne, diventano corrotte e da qui la confusione delle caste, nella quale, nessuno ha più un'idea chiara del suo dovere, con conseguente caos.
E' vero che siamo tutti uguali, socialmente, politicamente, economicamente e anche agli occhi di Dio, ma non necessariamente dobbiamo dimostralo con il matrimonio tra culture diverse. La storia dell'umanità rispecchia la fusione tra razze e popoli diversi. Anche se il suo primo risultato può essere una confusione di doveri e negligenza delle rispettive culture, conduce poi ad un risveglio dello spirito, ad una rivalutazione dei valori culturali e ad una nuova civilizzazione, ma questo processo naturale di mescolanza non dev'essere forzato prematuramente.


I                                                             43,44

Per queste malvagità dei distruttori della propria gente, che causa confusione delle caste, 
i riti religiosi eterni della nascita e della famiglia sono distrutti, 
e noi abbiamo appreso, o Krshna, che la dimora per un periodo sconosciuto 
nell'inferno è inevitabile per quelle persone, 
nelle cui famiglie le pratiche religiose sono state distrutte.
L'inferno su menzionato, non è necessario che sia altrove, può essere qui stesso! Ogni guerra lascia una lunga, tragica e orribile scia di vedove, orfani e figli 'illegittimi', invalidi e reduci disadattati. Tutto questo accade anche senza la guerra, in una comunità corrotta o sradicata. Quando il motivo è l'attrazione fisica o considerazioni materiali, il matrimonio tra persone provenienti da differenti culture, preparazione intellettuale, valori spirituali o anche gusti e temperamenti diversi, alla fine porta all'infelicità; se alcune di queste famiglie sembrano essere 'felici' è solo perché non hanno idea di cosa sia l'armonia domestica.
Naturalmente questo non accade, quando le parti, pur provenendo da due gruppi culturali diversi, hanno un bagaglio intellettuale e spirituale simile o complementare, e sono in grado di fare le necessarie modifiche.
Riguardo alla struttura sociale, Aldous Huxley dice nella sua "Perennial Philosophy":
"La storia contemporanea è la raccapricciante testimonianza di quello che accade, quando i capi politici, gli economisti o i proletari assumono la funzione divina di formulare una filosofia di vita, quando gli usurai dettano le linee d'azione e dibattono questioni di guerra e pace e quando il compito della casta guerriera è imposto a tutti indistintamente, senza tener conto della costituzione psico-fisica e della disposizione d'animo di ognuno".
Un mondo nel quale prevale questo tipo di caos è un inferno. Mentre nei tempi antichi, persino gli eventi di una guerra erano prevedibili, oggi la nostra vita quotidiana, anche in tempi di pace è imprevedibile; il risultato è continua ansietà e tensione.


I                                                         45-47

Ohimè, siamo coinvolti in un grande peccato in quanto siamo pronti ad uccidere la nostra gente 
per il desiderio dei piaceri del regno!
Sarebbe meglio per me se i figli di Dritarastra, con le armi in pugno
dovessero uccidermi in battaglia, senza che io opponessi resistenza e fossi senz'armi!
Sanjaya disse: Avendo così parlato sul campo di battaglia, Arjuna, gettando l'arco e le frecce, 
si accasciò seduto nel carro, con l'animo angosciato.
Se il motivo della guerra era 'il desiderio dei piaceri del regno', sicuramente quella era una guerra ingiusta, ma qui il cuore nobile di Arjuna sta semplicemente riflettendo l'atteggiamento malvagio dei Kaurava! "Essi sono avidi e pronti a combattere; noi siamo pronti a combattere, perciò siamo anche noi avidi", è la semplice equazione nella sua mente. Krshna farà notare che il suo punto di vista, il volere divino, è differente e perciò Arjuna deve combattere.
"Non resistere al male" non deve mai essere malinterpretato a significare "incoraggia il male". C'è una maniera composta (democratica se volete) di trattare con il male che non coinvolge il disturbo dell'equilibrio mentale di alcuno.
"Grande peccato" non è questa o quell'azione ma, secondo Krshna, kāma (desiderio) e krodha (odio) sono la fonte dei più grandi peccati; il motivo egoistico è il più grande peccato. La lussuria, l'ira e l'avidità disturbano il proprio equilibrio interiore, per questo sono le 'porte dell'inferno', secondo la Bhagavad Gita; sono di 'fame insaziabile' dice Krshna e consumano la nostra pace mentale, la felicità, la vitalità e la tranquillità interiore, che è una delle caratteristiche fondamentali dello yoga.
Ora siamo giunti alla soglia dell'insegnamento dello yoga.


om  tat  sat

iti srimad bhagavad gitasupanisatsu brahma vidyayam
yogasastre sri krsnarjuna samvade
arjuna visada yoga nama prathamo 'dhyayah


Così nella upanişad della gloriosa Bhagavad Gita,
la scienza dell'eterno, la scrittura dello yoga,
il dialogo tra Sri Krshna e Arjuna,
termina il primo discorso intitolato:

LO YOGA DELLO SCORAGGIAMENTO DI ARJUNA


[1] La traduzione italiana è basata su questa, N.d.T.
[2] Il verso 10 è interpretato differentemente da diversi commentatori. Sridhara Swami interpreta la parola aparyaptam a significare "insufficiente". Ananda Giri l'interpreta come "incommensurabile" (Swami Sivananda).
[3] Rettitudine, come ordinata dalle sacre scritture. Dovere. Caratteristica. Virtù.