Bhagavad Gita,       Cap. V I                                                     1, 2

Il Signore beato disse: Colui che compie il suo dovere senza dipendere dai frutti delle proprie azioni, lui è un samnyāsī e uno yogi, non chi smette di accendere il fuoco sacro e di compiere i rituali quotidiani.
Conosci lo yoga, o Arjuna, come quella che viene chiamata rinuncia; nessuno diventa davvero uno yogi, se non ha messo da parte i suoi pensieri, schemi e desideri egoistici.

Krishna rompe tutte le distinzioni umane, create da una mente limitata dalle sue idee preconcette e dalle sue imperfezioni. L’uomo di rinuncia (samnyāsī ) indossava l’abito arancione, aveva il titolo di “swami” e conosceva il vedānta: abbandonava tutti i rituali e non partecipava neanche alle attività sociali. Lo yogi, da parte sua, praticava degli esercizi psico-fisici e possedeva ed esibiva alcuni poteri psichici. Il samnyāsī  non faceva necessariamente queste cose e lo yogi non era necessariamente un uomo di rinuncia. Questo si credeva.
Non è la validità di queste distinzioni ma l’atteggiamento interiore che conta; spesso ci fermiamo sulle differenziazioni stesse e dimentichiamo lo scopo sia dello yoga che della rinuncia!
Krishna indica la sintesi: yoga è samnyāsa. Come possiamo contemplare Dio se non abbiamo imparato a staccare la mente dal mondo e a rimuovere la mondanità dalla mente? Come possiamo, d’altro canto, imparare a staccare la mente dal mondo, se non la leghiamo a Dio? Le due qualità – staccare la mente dal mondo (samnyāsa) e legarla a Dio (yoga) – non sono che le due facce della stessa medaglia.
Dove questa sintesi non prevale, c’è ipocrisia, orgoglio e conflitto. Dove prevale, c’è sincerità, umiltà e armonia – qualunque sia l’apparenza esteriore.


Cap. V I                                                     3, 4

Per un saggio che desidera pervenire allo yoga, l’agire è detto essere il mezzo; per lo stesso saggio che è pervenuto allo yoga, la calma profonda è detta essere il mezzo.
Quando un uomo non ha attaccamento per gli oggetti dei sensi o per le azioni, avendo rinunciato a tutti i desideri e gli schemi egoistici, allora è detto che ha raggiunto lo stato di yoga.
Vi sono stadi nella vita dell’aspirante in cui egli dovrebbe essere impegnato in pratiche esteriori e vi sono stadi in cui s’impegna in pratiche interiori. Negli stadi più elevati, comunque, il saggio è in uno stato di calma assoluta, riposando nel Sé che è la coscienza cosmica.
Finché lo stato conosciuto come yoga non è raggiunto, uno non deve rinunciare alle pratiche esteriori, perché una rinuncia prematura previene il progresso; questo è vero anche riguardo agli oggetti e a i doveri mondani. E’ più saggio ed appropriato coltivare il giusto atteggiamento verso di essi e stabilire dentro di sé la corretta scala di valori, in modo che gli oggetti cadano via, una volta che i loro valori si siano sgonfiati e i “doveri” vengano visti nella loro giusta luce come la giustificazione dell’ego per restare legato al mondo. L’ego non dà inizio alle azioni; le azioni vengono da un’altra parte. La corretta scala di valori, il giusto senso di proporzione è di per sé “samnyāsa”, generalmente tradotta come “rinuncia”. Spingere fisicamente lontano il mondo non fa che portarlo più in profondità dentro di sé, psicologicamente.
Questo non dev’essere interpretato come eccessiva enfasi all’azione. C’è uno stadio nella vita di ogni aspirante in cui le azioni esteriori e più tardi anche quelle interiori non sono più necessarie; allora, riposando nella pace del Sé egli realizza che quello è sia il fautore di tutte le azioni sia il testimone di tutti i fenomeni passeggeri! Questo non è uno stato da presupporre; ha i suoi propri criteri – un completo non-attaccamento, l’assenza di desideri egoistici e di sogni e schemi (tanto mondani che paradisiaci!), che vengono visti interiormente e realmente come fantasmi. In quello stadio, un falso senso di dovere o il bisogno di pratiche dimostrative cadono via spontaneamente senza che neanche ce ne accorgiamo.


Cap. V I                                          5-15

5. Che l’uomo usi la propria mente per elevarsi, non per degradarsi; la mente stessa è amica del Sé e la mente stessa può essere sua nemica.
6. La mente è amica del Sé per colui che ha conquistato la mente, ma per colui che non l’ha conquistata, la mente è la peggiore nemica.
7. Il Sé supremo di colui che ha raggiunto l’autocontrollo e la pace è in equilibrio nel freddo e nel caldo, nel piacere e nel dolore e anche nell’onore e nel disonore.
8. Lo yogi che è soddisfatto con la conoscenza e la saggezza del Sé, che ha la padronanza dei sensi e che vede una zolla di terra, una pietra o dell’oro con la stessa equanimità, vive nella costante armonia.
9. Colui che vede con equanimità gli onesti, gli amici, i nemici, gli indifferenti, gli imparziali, le persone piene di odio, i parenti, i giusti e gli ingiusti, eccelle.
10. Che lo yogi si sforzi costantemente di tenere ferma la mente, restando da solo, in un luogo appartato con la mente e lo spirito sotto controllo e libero da ogni desiderio o senso di possesso.
11. In un luogo pulito, che prepari un seggio suo proprio, né troppo alto né troppo basso, fatto di uno strato d’erba (kusha), una pelle di daino e una stoffa morbida, l’uno sull’altro.
12. Lì, concentrando la mente su un unico oggetto, e avendo controllato  le attività della mente (chitta, mente subconscia) e dei sensi, seduto sul seggio, che egli pratichi lo yoga per la purificazione del sé.
13. Che egli tenga il corpo fermo, la testa e il collo dritti e fermi, guardando la punta del naso, senza guardarsi intorno.
14. Con la mente serena, impavido, saldo nella contemplazione dell’assoluto, avendo controllato la mente, pensando a Me e con la mente in armonia, sieda, con Me come meta suprema.
15. Così, mantenendo costantemente la mente in equilibrio, lo yogi, con la mente controllata, raggiunge la pace dell’unione con Dio che culmina nella liberazione (nirvāna).

Citta o mente subconscia funziona a causa dei desideri e tendenze latenti (memoria)  e del movimento del prāna. Perciò lo yogi pratica il prānāyāma e volge i desideri verso la loro propria origine. Così citta è liberata dalla sua attività turbolenta e diventa tanto trasparente da rivelare la sottostante, essenziale natura divina del sé.


Cap. V I                                           16, 17

In verità lo yoga non è possibile per chi mangia troppo, né per chi non mangia affatto (che troppo si astiene dal mangiare), né per chi dorme troppo né per chi è sempre sveglio, o Arjuna.
Lo yoga diventa il distruttore del dolore per chi è moderato nel mangiare e nel ricrearsi, agisce appropriatamente nelle attività della vita ed è moderato nel sonno e nella veglia.

Lo yoga non è un atto o raggiungimento fisico, mentale o psichico, ma è la vita stessa; non il tipo di vita irrequieta che oscilla costantemente tra i due estremi di euforia e depressione, indulgenza e negazione, sensualità e ascetismo, ma il fluire armonioso della volontà divina lungo il saggio sentiero centrale. La Kathopanishad caratterizza il sentiero spirituale come “il filo del rasoio”, difficile da percorrere. Il filo del rasoio è difficile da percorrere, non a causa della paura che ci possa ferire i piedi, me perché è così sottile da essere invisibile.
Ai due lati di questo sottile sentiero centrale c’è pericolo, dolore e sofferenza. Entrambi gli estremi implicano una forte identificazione del corpo, della mente e dell’ego personale con il Sé. Lo yoga mira esattamente all’eliminazione di questa falsa identificazione e di tutti i desideri personali, sotto qualunque etichetta appaiano.
La persona che ama mangiare è un ghiottone, ma chi si rifiuta di mangiare è un egoista. Il primo identifica il Sé (ātma) con il corpo, il secondo con la vana personalità o l’egoismo che si gonfia d’orgoglio per la sua capacità di restare senza cibo. Entrambi stanno confondendo il Sé con il non-sé. Lo yogi dissocia il corpo, la mente e l’ego dal Sé reale, mentre permette alla natura divina di rivelarsi attraverso tutti questi.
Nell’eccesso di cibo c’è dolore e anche nell’astensione. Il piacere e invariabilmente seguito dal dolore. La vanità è accompagnata dalla paura o dall’orgoglio ferito. Lo yogi che cerca la via centrale è beatamente libero da tutti questi. Solo lui vive davvero; gli altri si trascinano in una misera esistenza.


Cap. V I                                               18, 19
Quando la mente perfettamente controllata riposa nel Sé soltanto, libera dal desiderio di qualunque oggetto, allora è detto: “Lui è unito”.
Come una lampada posta in un luogo senza vento non vacilla, così è lo yogi dalla mente controllata, che pratica lo yoga nel Sé.

Krishna ci ricorda ripetutamente che il controllo della mente e lo yoga implicano il non-attaccamento, che non significa né odiare o allontanarsi in modo vano, stolto ed egoistico da alcuna cosa in questo mondo né, delusi, infliggere crudeltà al proprio corpo. Il non-attaccamento deriva dall’intelligente comprensione della natura dell’anima come “immagine di Dio” e del corpo, della mente e dell’ego come natura esteriore di Dio. Il corpo, la mente e l’ego forniscono al sé individualizzato una dimora nella quale poter agire, diventare perfetto e testimoniare la realtà di Dio.
Il corpo esiste come esiste la casa, viene a contatto con vari oggetti di questo mondo, come la casa viene a contatto con il vento, la pioggia e il sole. Da questi contatti la mente impara continuamente la sue lezioni in questa vasta scuola del mondo ma, poiché ignora la verità, attribuisce il piacere e il dolore agli oggetti e alle esperienze e, di conseguenza, reagisce con l’attaccamento e l’avversione. Questi sono i fattori che rendono schiava l’anima individuale: questi disturbano continuamente l’equilibrio interiore, e sono essi stessi i frutti della disarmonia interiore. Se la mente non è in pace, la vita è un incubo, una catena di infinite tribolazioni.
La mente dello yogi, al contrario, è come una lampada in un luogo senza vento, che arde in maniera tranquilla e costante, illuminando tutto ciò che gli sta intorno. Questa è una delle ragioni per cui l’aspirante tiene sempre accesa una lampada o una candela sul suo altare – per ricordarsi dell’ideale per cui si sta impegnando; quest’armonia interiore dovrebbe prevalere in ogni momento, non solo durante la meditazione. La lampada non è inerte ma sempre intensamente attiva nella combustione; così la mente ferma dello yogi non è nella noia o nella monotonia, ma è dimora di un fiorente e ininterrotto intuito e di una vita intelligente e beata, in stretto accordo con la volontà di Dio.



Bhagavad Gita,   cap. V I                            20, 21

Quando la mente, portata sotto controllo dalla pratica dello yoga, raggiunge uno stato di quiete e, quando vedendo il sé per mezzo del sé, è soddisfatto nel suo proprio sé,
Quando (lo yogi)  sente quella gioia infinita, che può essere percepita dal puro intelletto e che trascende i sensi e, ivi stabilito non si discosta dalla verità,

La soddisfazione è un'esperienza soggettiva interiore. Quando il desiderio dei sensi, l'impulso delle passioni (il quale non è altro che tensione, stress o dolore), si placa grazie ad un rilascio della tensione dovuto all'appagamento di quel desiderio, sopraggiunge un'esperienza di soddisfazione ma, trattandosi solo di un appagamento, la tensione si accumula di nuovo e, ancora una volta si sperimenta il dolore. Continuando con questa politica dell'appagamento, gli intervalli tra due periodi di stress diventano sempre più brevi e il dolore sempre più presente.
Lo yogi questo lo sa e perciò rimane consapevolmente stabilito nella sorgente primaria della soddisfazione, la soddisfazione nel sé (o spirito - ātma). Egli rifiuta risolutamente che la tensione o il desiderio si accumuli per poi culminare in un futile appagamento. Questo atteggiamento è possibile solo se siamo capaci di sollevare il velo dell'ignoranza, che nasconde la fonte di infinita beatitudine al di là dell'intelletto e dei sensi. Il velo normalmente confonde la nostra visione e ci dà l'illusione che la felicità sperimentata dopo l'appagamento del desiderio venga dall'appagamento stesso: è il pensiero che causa questa confusione; il pensiero stesso è il velo. Il pensiero collega l'esperienza esteriore con la gioia interiore - e desidera la sua ripetizione e continuazione. Silenziare il pensiero è meditazione.
Lo yogi supera questa confusione attraverso la meditazione. La gioia sperimentata nella meditazione, senza alcun intervento esterno smentisce la vecchia nozione che la felicità venga dall'esterno. La felicità indipendente è la più intensa, ed è irremovibile perché è auto-dipendente. Fino a quando la nostra pace o felicità dipende da agenti esterni, non possiamo essere felici.



Bhagavad Gita,           cap. V I                     22, 23

Avendo ottenuto la quale, pensa che non possa esserci una conquista più grande; quando ivi stabilito, non vi è smosso neanche dalla più grave sciagura,
Che quello sia chiamato con il nome di yoga, la separazione dall'unione con il dolore. Questo yoga dev'essere praticato con determinazione e intelligenza.
- - - - - - - - - -

Quando tutto procede bene e il sole risplende su di te puoi pensare di non avere alcun dubbio, che sai esattamente chi è Dio e cos'è la meditazione ma, quando sopraggiungono dei problemi nella vita, dove è quel Dio? l'ego viene fuori, d'un tratto c'è l'insicurezza, la paura, l'agonia e tutte le tue credenze ti lasciano: questo è il pericolo dell'aderenza superficiale ad un credo: perciò qui Kṛṣṇa dice: "Se hai una visione della verità, provala con questa definizione: stabilito in quella verità, puoi sostenere la più grande calamità, e sorridere?" Se puoi allora è possibile che tu abbia scoperto la verità, se non sei stato sottoposto a questo test, allora sospendi il giudizio.
Fino a quando identifichiamo il sé con la mente, il corpo e il mondo e sperimentiamo solo il 'piacere' esteriore, siamo sempre nel dolore. Quando questa identificazione ingannevole è rimossa e la coscienza s'identifica con lo spirito (come nello yoga) allora siamo nella beatitudine, siamo beatitudine.
Questo è il più alto ottenimento, perché non può esserci felicità più grande della beatitudine che è indipendente e completa. Questa beatitudine non può essere rimossa da uno che è ivi stabilito, né può essere modificata in lui.
Essendo totalmente distaccato dal mondo, dal corpo e dalla mente, e poiché ha realizzato che il sé è il tacito indipendente testimone dei fenomeni del mondo (inclusi il suo corpo e la sua mente), lo yogi rimane inalterato in qualsiasi condizione. Egli conosce il sé come l'immortale, eterna, completa, perfetta e indipendente beatitudine - la vera divinità interiore.
Quello di cui abbiamo bisogno è una ferma determinazione (non testarda ostinazione), una vera comprensione e un approccio intelligente alla verità del nostro essere divino essenziale.



Bhagavad Gita,        cap. V I                     24, 25

Abbandonando tutti i desideri nati dal pensiero e dall'immaginazione, e portando sotto il completo controllo della mente l'intero gruppo dei sensi da ogni parte,
Che egli a poco a poco giunga alla quiete, per mezzo della fermezza del discernimento; avendo stabilito la sua mente sul sé, che egli non intrattenga alcun pensiero.
Saṁkalpa è stato tradotto come pensiero, nozione, concetto: è semplicemente quando un pensiero è intrattenuto e rafforzato. Il saṁkalpa avviene tra chi ha l'esperienza e l'esperienza stessa che ha luogo nella mente. Perciò, quelli che chiamiamo i nostri pensieri, non sono molto diversi dall'immaginazione, eppure per tutto il giorno pensiamo!
D'un tratto ci rendiamo conto che la vita è stata schiava di questi saṁkalpā (questi oggetti immaginari che danno origine alle brame e ai desideri), e che abbiamo dipinto un mondo raccapricciante in cui vediamo amici, nemici, santi, peccatori e così via; siccome questa mente o il saṁkalpa interferisce, non sappiamo cos'è naturale per noi e la vita diventa una lotta. Lo yogi, avendo individuato questo fatto, s'impegna costantemente a ritirarsi nel proprio sé - sapendo che ivi è la più grande sorgente di gioia e soddisfazione - mentre porta avanti la sua normale attività nello spirito dello yoga.
Questo è quello che Swami Sivananda chiamava il suo "sottofondo del pensiero". Anche mentre lavorava, viveva e si divertiva nel mondo esteriore, per così dire, egli era stabilito nel sé interiore. Questo oscillare tra la meditazione e la vita è la maniera in cui Kṛṣṇa sottintende la loro unità: l'una senza l'altra è imperfetta e incompleta.
Durante il periodo di attività, lo yogi cerca di realizzare: "Tutto questo è Dio"; però, per prevenire che il sottile attaccamento o la delusione si facciano strada, durante la meditazione egli cerca di rimuovere completamente la coscienza del tutto, e rimane radicato nel sé soltanto. Intrattenendo fermamente l'unico pensiero divino "Tutto questo è Dio", la mente lascia cadere tutti gli altri pensieri e desideri e rimane serena. Dio però non è pensiero; dunque anche questo dev'essere trasceso. Al di là del pensiero c'è una dimensione completamente diversa da tutto quello che è stato pensato o espresso: è quello che Kṛṣṇa, il supremo Maestro, ci indica.

Bhagavad Gita,         cap. V I                     26-28

Per qualunque causa la mente divaghi, irrequieta e instabile, da quella egli la freni e la conduca sotto il controllo del sé soltanto.
La felicità suprema giunge a questo yogi la cui mente è serena, le cui passioni si sono calmate, che è diventato Brahman e che è libero dal peccato.
Lo yogi, tenendo il sé in questa costante armonia, libero dal peccato, gode facilmente della infinita beatitudine del contatto con Brahman.

"Stacca la mente dagli oggetti, legala al Signore" disse il mio maestro Swami Sivananda; questo non è facile ma neanche impossibile e, quello che è fondamentale ricordare e che dev'essere fatto.
La mente, che vaga lontano dal centro del nostro essere, cercando il contatto degli oggetti del mondo, è la causa del male ed è essa stessa il male: realmente è questa la sofferenza. La mente sradicata dal suo proprio centro (il sé, lo spirito) vaga nell'infelicità, piange nel dolore, brancola nel buio, si dispera nell'ansia. Proprio come un bambino, che si è perso dalla madre, è colmo di paura, piange e non riesce a divertirsi nel carnevale, così la mente dell'uomo legato al mondo, che ha perso il suo contatto con Dio è pieno di preoccupazioni ed è incapace di godere dell'onnipresenza di Dio.
Quando quella mente viene staccata dal contatto con gli oggetti del mondo per mezzo della pratica costante e persistente e, quando è simultaneamente legato allo Spirito onnipresente, permette allo yogi di godere della gioia infinita che è la sua vera natura essenziale.
Una volta che questo contatto è stato stabilito, lo yogi deve cercare di rimanerci: questo sarà facile, perché la felicità che ne deriva è incomparabilmente superiore ad ogni altra cosa, e la mente sarà pronta e desiderosa di lasciar cadere qualunque altro inseguimento. Da quel momento il sentiero diventa facile e scorrevole. Rimanendo fermamente stabilito nell'assoluto (Brahman), lo yogi diventa Brahman, cioè realizza che Brahman soltanto è reale e l'io non è mai stato reale. Io esisto, naturalmente, ma non come "io" o "me" o "mio". Il senso dell'ego, la mente, l'intelletto, il mondo e la materia ci sono - ma come Dio, integro e inseparabile.



Bhagavad Gita,                                  cap. V I              versi 29,30

Con la mente armonizzata dallo yoga egli vede il sé in tutti gli esseri e tutti gli esseri nel sé; egli vede lo stesso dovunque.
Colui che vede me dappertutto e vede ogni cosa in me, non diventa mai separato da me né io divento separato da lui.

La meditazione (come descritta nei precedenti versi dall'11 al 14) è solo una parte - anche se la parte vitale e indispensabile, del risveglio spirituale dello yoga - ma non dobbiamo mai pensare che lo yoga significhi solo quello. Dio è onnipresente: realizzare Dio deve dunque significare realizzare la sua onnipresenza, non solo dentro di sé o nel proprio santuario ma in tutti e, infine come il tutto.
Quando veniamo in contatto con gli oggetti e le personalità in questo mondo, la mente reagisce immediatamente nella maniera abitudinaria, fornendo loro nomi, forme e presunti attributi come buono o cattivo, brutto o bello, piacevole o spiacevole.
Il linguaggio è un paravento, un pretesto: usiamo le parole per coprire quello che non vogliamo vedere; indulgiamo nel chiamare per nome, perché non conosciamo la verità e non c'importa di conoscere la verità. E' possibile però arrivare a comprendere che è l'ignoranza ad aver creato questi nomi e la simultanea illusione di conoscere, mentre in realtà non conosciamo niente. Uno che riesce ad entrare in quello spirito ottiene la grazia e l'illuminazione.
Perciò allo studente di yoga viene chiesto di meditare e stabilire il contatto interiore; una volta che questo è fatto, è più facile andare oltre il nome e la forma degli oggetti e delle personalità e percepire l'essenza divina in tutto.
La meditazione da sola, senza questa pratica dinamica dell'onnipresenza di Dio è di ben poco uso; la meditazione stessa non è possibile, se la nostra vita ordinaria nega la sua onnipresenza, come non possiamo fare alcun progresso se accendiamo il motore e non facciamo partire la macchina!
E' quell'unico essere infinito che risplende attraverso  tutta questa diversità come tutto questo. Avere questa visione è di fatto la meditazione; allora non c'è né un ritirarsi dal mondo né un coinvolgimento. Saṁsāra, il corso continuo degli eventi, continua a scorrere senza chiedere né che tu ti coinvolga né che tu ti ritiri. Vedere questo è vedere Dio; vedere Dio è essere buoni!


Bhagavad Gita,                                cap. V I              versi 31,32

Colui che, stabilito nell'unità, adora me che dimoro in tutti gli esseri, quello yogi dimora in me, qualunque sia il suo modo di vivere.
Colui che, come in se stesso, o Arjuna, vede identicità (śama) dappertutto, che si tratti di piacere o dolore, è considerato lo yogi più elevato.

Questo è lo scopo dello yoga, chiaramente dichiarato qui e, ancora più vividamente reiterato, nel verso 46 del diciottesimo capitolo. Adoriamo Dio nei templi, nelle chiese e nelle moschee; ci accostiamo a lui attraverso le sue molteplici manifestazioni (che studieremo nel decimo capitolo), ci sediamo in un luogo appartato e meditiamo sulla sua presenza nel nostro cuore: tutti questi sono "esercizi" necessari per diventare competenti nell'arte dello yoga. Senza di essi non andiamo da nessuna parte ma, se rimaniamo bloccati a questi, neanche allora raggiungiamo lo scopo.
Kṛṣṇa qui espone chiaramente due verità fondamentali: che lo yogi deve adorare tutti gli esseri in cui Dio dimora, e che il suo modo di vivere non è determinante, se questo atteggiamento di devozione è adottato. Qualunque sia il proprio mestiere o la propria occupazione, uno può essere uno yogi; qualunque sia il proprio stato sociale, religione, colore o nazionalità, uno può essere uno yogi. Dal punto di vista divino, non c'è niente di secolare o meschino, profano o impuro, perché lui è la fonte di ogni cosa; è l'atteggiamento interiore di adorazione che è importante: quella è la pietra filosofale che trasforma ogni attività in yoga. Lo yogi non intrattiene neanche la minima idea di profitto; non sente di star aiutando o servendo qualcuno; adora tutti gli esseri, e questo naturalmente assume la forma di servizio amorevole (servizio di amore a Dio).

 Come il Signore dimora nel proprio corpo e nella propria mente, con tutte le loro debolezze e imperfezioni, così dimora in altri corpi e menti. Lo yogi trascende il bene e il male. Il piacere e il dolore sono eventi, non esperienze; la lode e il biasimo sono opinioni che non lo toccano. La sua mente (o piuttosto "la" mente) è radicata nella coscienza di Dio, per cui egli va al di là di tutti questi, e riposa nell'identicità (śama) che è l'onnipresenza di Dio.


Bhagavad Gita, cap. V I                                                      versi 33,34             

Arjuna disse: Di questo yoga dell'equanimità da te insegnato, O Kṛṣṇa, io non vedo la stabile continuità, a causa dell'irrequietezza della mente.
La mente è davvero agitata, turbolenta, forte e inflessibile, O Kṛṣṇa; ritengo sia tanto difficile da controllare, come controllare il vento.

Chiunque abbia provato a tenere ferma la mente sa quanto sia difficile; se l'oggetto della nostra attenzione a all'esterno e sensualmente attraente, forse impone la nostra attenzione. Chiunque abbia provato a mettere a fuoco l'attenzione su un'idea o un ideale dentro di sé può comprendere quello che Arjuna dice qui! Una mente che prima era passiva diventa improvvisamente attiva; il placido lago della mente diventa agitato, e la mente ci porta ancora più lontano dall'ideale interiore, di quanto avessimo potuto immaginare!
Il potere dell'illusione, dell'ignoranza, dei desideri e degli istinti animali è così forte che risente di ogni tentativo di controllare la mente. E' esperienza di molti che "da quando ho cominciato a concentrarmi e meditare, le impurità interiori sembrano essere cresciute". Ci sembra di essere più lontani da Dio adesso di quanto non avevamo neanche iniziato a pensare a lui.
E' bene sapere che questo è un passo verso Dio, un segno di progresso! Il demone interiore è stato disturbato, scosso dalla sua esistenza compiacente come signore del nostro mondo interiore. Come un gatto affamato e assalito, sta ora lottando con le spalle al muro - è intrappolato!

La lotta è dura e incessante ma combattiamo questa buona battaglia con fede in Dio, perché una volta che la mente stessa sarà offerta ai piedi del Signore, per servirlo, diventerà la nostra migliore amica. Questo è il simbolo dietro il personaggio di Hanumān (figlio del vento - il vento e la mente hanno simili caratteristiche) nel Rāmāyana. Questa scimmia irrequieta (la mente) è invincibile, saggia ed eroica ed è capace di operare meraviglie, una volta che è posta al servizio del Signore.