AMORE TOTALE



  Amore Totale

SwamiVenkatesananda


Titolo originale
TOTAL LOVE
Pubblicato da
The Chiltern Yoga Thrust (Australia)
P.O.Box 2, South Fremantle 6162

Queste conferenze furono tenute nella casa di
Jyoti Brunsdon a Sidney, nell’aprile 1980.


Traduzione
Pasquale D’Adamo

Associazione Yoga Sivananda
Vasto
Prima edizione italiana 1983
Seconda edizione 2005








  

Al soggetto dell’Amore Totale,
Swami Venkatesananda porta la ricchezza della sua conoscenza, saggezza e umorismo.
La sua consapevolezza delle debolezze umane e la sua conoscenza delle scritture scorrono in queste conferenze come la trama e l’ordito, intessute dalla sua amorevole saggezza e animate da indimenticabili racconti umoristici presentati con il suo magistrale fascino.
Sopra ogni altra cosa, è l’amore incondizionato dello swami che spicca, e fa di questo libro una fonte di gioia per tutti coloro che desiderano realizzare la verità e avere l’esperienza di quell’amore.


I
CHI E’ DIO?

Il Capitolo Dodicesimo della Bhagavad Gita ha come soggetto Bhakti: amore divino o amore-Dio. Purtroppo abbiamo usato male la parola amore e quindi, insieme ad essa, dobbiamo usare l’aggettivo divino o la parola Dio. E’ bene esaminare questa parola ‘amore’ prima di darne una descrizione. Se esaminiamo la parola inglese “live”, vivere, scopriamo che per vivere dobbiamo fare qualcosa di veramente importante, non semplicemente respirare o mangiare (queste cose sono facili). La parola live è esattamente l’inverso della parola evil, male: l-i-v-e: e-v-i-l. Bisogna voltarsi completamente via dal male e, se non lo facciamo, non abbiamo ancora cominciato a vivere. Non cominciamo a vivere se prima non riconosciamo che cosa vuol dire il male e non ci voltiamo via da esso.
Che cos’è il male? Il male non è quello che le scritture dicono che sia; se guardiamo di nuovo la parola, è probabile che il significato diventi completamente chiaro. Con le quattro lettere e-v-i-l (male) è possibile formare un’altra parola: v-e-i-l (velo). Che cos’è il male se non un velo (una copertura, una maschera)? Poniamoci delle domande molto semplici: chi sono io? cos’è tutto questo? cos’è questo mondo? cos’è la vita? Se le risposte a queste domande sono velate, allora c’è del male nel cuore e nella mente. Quel velo può anche apparire come un velo religioso o non-religioso, un velo teistico o un velo ateistico. In tutte le cosiddette antiche culture si ha questo pauroso fenomeno della tradizione religiosa che diventa essa stessa una minaccia, un velo. Questo lo so in prima persona.
“Questa è la religione - tu sei superiore, lui è inferiore; questa è la nostra tradizione: tu sei nato bramino, sei nato santo e gli altri non sono santi”. Per quanto cattivo possa essere il tuo comportamento, tu sei sempre superiore e, per quanto buona l’altra persona possa essere, rimane sempre cattiva, è sempre una persona abbandonata da Dio agli occhi dei tradizionalisti. Che si tratti di una tradizione religiosa o meno, la verità è celata.

Chi sono io? Che cosa sono io? Che cos’è questa vita? Perché sono qui? La stessa mente forse procurerà una risposta ma ti renderai conto che questa viene dal velo. Per esempio, chi sono io? - “Sono un Indù”. Questo è quello che qualcuno mi ha detto; è un velo, non è la verità. Che cosa sono? “Sono uno swami”. Questa non è la verità, anche questo è quello che qualcuno mi ha detto che sono - quarant’anni fa non ero uno swami.

Tutte le immagini di sé sono veli e ognuna di esse genera il male; se posso voltarmi via completamente da queste immagini, è allora che io comincio a vivere. Ma ‘io’ comincio a vivere e io posso anche far finta di essere libero da tutti i veli. Un modo di esprimere questa libertà è quello di gettar via tutti i vestiti. Questo è facile, specialmente se è caldo e ti va di farlo (e se hai una bella linea, non c’è alcun problema!) ma questo non è gettare via il velo che è l’immagine di sé. Possiamo sbarazzarci di quest’immagine?   Quando le scritture suggeriscono che non dobbiamo adorare le immagini è a quest’auto-immagine che si riferiscono, non alle icone e agli idoli. E’ quest’auto-immagine che costituisce il pericolo.

Quando pensi di esserti girato via dal male e quindi pensi di vivere, può anche essere vero che, secondo i tuoi modelli, tu sia libero dal male. Hai un modello e anche in India hanno un modello, una descrizione di ciò che uno swami, ad esempio dovrebbe essere - e fino a quando lo swami si mantiene entro quei modelli, è riverito. Uno swami deve avere la testa rasata, portare una tonaca arancione, alle donne non deve neanche guardare, non può mangiare questo e non deve toccare quello. Fino a quando fa tutte queste cose (almeno in pubblico) viene riverito e se poi è anche un buon oratore, è venerato. Per questo è anche possibile auto-convincersi di essere completamente liberi da ogni male.

Uno può dire, per esempio:

“Io ho ottant’anni e quindi sono libero dalla sensualità. Ho un gruppo di cretini intorno a me che mi obbediscono implicitamente e quindi non vado mai in collera. Ho degli amministratori e quindi non tocco mai il denaro, lascio agli altri il compito di amministrare tutti i miei affari per mio conto - così io sono libero dal male”.
“Io” sono libero dal male - in quest’espressione c’è la sorgente del male; quell’ego, quella vanità è sufficiente a creare tutta una serie di mali. Anche quando un uomo dà mostra di essere così tanto santo, è perché è drasticamente ansioso di mantenere quell’immagine di sé. Quando invece venite a contatto con una persona spirituale, vedete qualcosa di diverso: è spontaneo, è bello per via naturale; il mio Guru Swami Sivananda era così.

L’auto-immagine può anche prendere le sembianze di assenza di male, ma tutto è nascosto in quell’unica auto-immagine - io. Torniamo quindi alla parola live, vivere. Ti sei voltato via dal male, ma stai trattenendo quell’auto-immagine e, mentre vivi, quell’auto-immagine è veramente importante in quel vivere. L-I-V-E - la parte più importante di quella parola è l’io (I), e finché I resta lì, la parola può essere di nuovo capovolta e diventare evil, male. Finché c’è quest’auto-immagine: “Io sono un santo”, puoi ancora diventare l’uomo meno santo della terra - già non sei una persona santa. Perciò guardi di nuovo quella parola e ti rendi conto che, solo se questo I (io, l’ego) è abbandonato, c’è speranza.

Ci sono dozzine di racconti (tanto in scritture indiane come la Bhagavatam che in altre scritture religiose) dove si legge che delle divinità nel regno di Dio caddero a causa di questa vanità. Questi racconti possono essere allegorici o possono essere veri, ma mettono comunque davanti ai nostri occhi la lezione meravigliosa che, per quanto tu possa essere santo, se l’ego, l’immagine di te stesso c’è ancora, c’è ancora la possibilità di una caduta, non sei ancora fuori pericolo.

Se cancelliamo quell’I (io) resta l-v-e, non possiamo neanche pronunciarla. Andiamo alla ricerca di una vocale che sia l’antitesi diretta di I (la quale sta dritta e dice - lo sai chi sono io?). L’antitesi di I è ‘o’ che si piega completamente, che è umile - non perché si vanti di umiltà, ma perché è così di natura. Prendi quella vocale e mettila al posto giusto, allora live è “love”: vivere è amare. Se impariamo ad amare non c’è assolutamente alcun problema.
Quest’amore non è quello che tu ed io l’abbiamo fatto diventare – ‘io amo te’. In ‘io amo te’ l’io è ancora lì, per cui io potrei anche smettere di amare te, potrei odiare te! Solo quando questo io è completamente abolito e solo l’amore prevale, è possibile che quell’amore sia naturale, senza sforzo, senza scelta; non hai altra scelta se non quella di amare, perché sei amore.


Questa è l’essenza dello yoga. Se l’amore c’è, allora qualsiasi cosa fai è yoga. Se l’amore non c’è, qualsiasi cosa fai non è yoga. Puoi metterti con la testa in giù per sei ore al giorno e, probabilmente, non avrai i capelli grigi, ma quello non è yoga, non sei uno yogi. Puoi essere una persona molto religiosa, ma diabolica. Un giorno un funzionario di un tempio dell’India meridionale mi disse: “Quando Dio vuole mandare qualcuno all’inferno, lo fa diventare un pandit (prete), perché quella persona non ha fede per niente”. La persona che porta avanti il culto alla divinità nel tempio può non avere alcuna fede in quella divinità: fa solo un mestiere che gli permette di vivere. Tu puoi fare tutte queste cose, ma nessuna di esse è yoga, finché non hai scoperto la chiave della vita. La chiave della vita è la sostituzione di “io” con “0”, è scoprire l’amore - questa è l’essenza.

 Fin dall’inizio dell’insegnamento ti viene detto che devi amare il guru, un santo, una persona santa. C’è una bella espressione nella Bhagavatam; essa dice che è schiavitù essere legato a chiunque; ma che se devi legarti, è meglio che ti leghi a una persona santa - perché lui non si fa legare. Tu lo segui instancabilmente ma lui rifiuta di lasciare che ti leghi a lui; in questo impari cosa vuol dire non essere legato. L’amore dev’essere sublimato. Tu ami tuo marito, molto bene;  ami tua moglie, molto bene - un po’ alla volta cambia quell’amore, trasformalo, sublimalo, accorgiti che in qualsiasi relazione di tipo io-amo-te c’è di nuovo l’io. Se tu ami un santo, una persona illuminata, egli t’insegnerà ad amare senza quell’io amo te. Lo vedrai nel suo comportamento stesso. Un giorno lui dirà, “Oh, che ragazza meravigliosa sei!” Il secondo giorno sarai ignorata completamente e il terzo giorno ti prenderà in giro davanti agli altri, cosicché tu pensi che non ti ami più. Il giorno successivo ti farà cenno da lontano: “Vieni, vieni, vieni!” All’improvviso, quell’immagine che tu avevi di cosa sia l’amore è distrutta.
Ti rendi conto immediatamente che quell’io ti amo è un contratto, non è amore, l’amore è qualcosa di molto diverso. Si tratta non di un amore che lega, ma di un amore che libera; non è un legame chiamato amore, ma una liberazione chiamata amore, amore che è liberazione. Improvvisamente ti accorgi che quest’ amore è divino, non è umano, anche se include l’affetto umano.

Io non ho mai avuto un’esperienza superiore di quest’amore e di quest’affetto come l’ho avuta con il mio Guru Swami Sivananda, Baba Muktananda, J. Krishnamurti e alcuni altri. Devo confessarvi di essere stato circondato di amore; chiunque mi si avvicina, in qualunque modo, mi ama, su questo non c’è dubbio. Ma quell’amore di cui ho avuto esperienza con Swami Sivananda, Baba Muktananda, Krishnamurti e altri è qualcosa di un genere a sé stante. Ti rendi conto all’improvviso - questo è amore! Tutto il resto è qualcos’altro - attaccamento, affetto, attrazione. Quell’amore è divino. Quell’amore è Dio. Quando quell’amore non c’è, non troviamo pace.

Bhakti è generalmente tradotto come amore-divino, ma la parola vuol dire anche divisione.  Quello è il punto di partenza. Partiamo da un’idea di divisione - io amo te. In ‘io amo te’ c’è frustrazione, delusione. Per esempio: lei ti ama per un po’ di tempo e poi non ti ama più; tu ne resti scosso, deluso, frustrato. Poi, se per grazia divina vieni a contatto con una persona illuminata, trasferisci su questa tutto il tuo amore - “Io ti amo mio guru”. Allora lui si mette a giocare a rimbalzello. Da un giorno all’altro non sai più in che posizione sei, non sai più in che rapporto sei con lui, ma lui non ti lascia ancora andare - e questo amore viene messo a dura prova. Tu senti ancora di essere diverso e separato da lui. Allora quell’auto-immagine che hai lui la mette sull’incudine.
Quest’idea di divisione ‘io amo te’ viene lentamente pestata, perché il guru è capace di farti realizzare che quello non è amore, ma è solo un contratto, un affare. A questo punto è possibile che il guru diriga dolcemente la tua attenzione verso Dio. Il guru ti dice: “Devi amare Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua energia, con tutta la tua forza”, e lo dice per evitare che tu cominci ad attaccarti a lui (al guru).

C’è però ancora il senso dell’ego che è molto forte. Il senso dell’ego non va via col semplice desiderio di eliminarlo, perché tutto c’incoraggia a mantenere questa divisione. Dio è lì e tu sei qui e ti siedi e adori quel Dio, o ti siedi e mediti su Dio, oppure ti siedi e visualizzi Dio nel tuo cuore. Dio diventa improvvisamente così piccolo che puoi farlo entrare nel tuo cuore! Vi prego di non pensare che io stia deridendo queste pratiche: sono utilissime, ma le pratiche di visualizzazione di Dio nel proprio cuore, ecc. ci sono state date semplicemente come esercizio. Il cuore in questo contesto è solo un punto focale; inoltre non è al cuore fisico che ci si riferisce, ma al cuore spirituale, che è coscienza.
Visualizzare la presenza di Dio nel tuo cuore vuol dire che tu visualizzi Dio come l’Essere illuminato ma, in genere questa spiegazione non ci viene data. Ci viene chiesto di visualizzare un piccolo Dio nel nostro cuore, un Dio delle dimensioni del pollice di un neonato, un’immagine molto graziosa e concisa. Questa serve come punto focale. La tua attenzione è normalmente dissipata su un milione di cose di questo mondo e, per aiutarti a raccogliere i raggi della mente, i maestri suggeriscono questo piccolo esercizio, ma non vuol dire che è tutto qui, che tutto finisce qui e che questo ti condurrà alla realizzazione del Sé. Nella Bhagavad Gita, Krishna usa una bella espressione:

mayy āveśya mano ye māṁ nityayukta upāsate… XII,2
“Entra tu stesso in Me”.

Qui Kṛṣṇa ci dice - non cercare di spingere Me nel tuo cuore… tu sei una piccola creatura limitata e io sono infinito - Invece di far entrare Dio nel tuo cuore, entra tu stesso in Dio.
Io suggerisco la tecnica seguente:
Comincia visualizzando questa piccola immagine nel tuo cuore, perché questo ti aiuta a mettere a fuoco l’attenzione e a concentrare la mente; poi avvicinati subito di più, sempre di più a quella presenza divina, finché essa non occupa tutto il tuo essere; finché non cominci a sentire: “Dio, tu solo esisti, non io”. Non c’è spazio per un me. Con il tuo cuore, con la tua anima, con l’intero tuo essere entri in quella presenza. Poi cominci a sentire che tutti noi siamo in questo Dio che pervade tutto - non Lui in noi - noi siamo tutti in Lui.

Solo se questa diventa una realizzazione diretta, siamo fuori pericolo. Solo allora siamo liberi dalla possibilità dell’insorgere del male. Quando c’è questa realizzazione diretta dell’unità cosmica, dell’Essere universale, di cui noi siamo cellule chiamate anime, solo allora viviamo e solo allora amiamo. E’ allora che sapremo cosa fare l’uno verso l’altro: se amarci l’un l’altro o persino se distruggerci l’un l’altro; se servirci l’un l’altro o se ignorarci l’un l’altro.
L’amore è l’espressione naturale dell’Unità che sola esiste. Tutto il resto è attrazione, attaccamento, infatuazione; cose che avranno le loro proprie reazioni. Io ti amo ci condurrà a Io ti odio prima o poi, se viviamo abbastanza a lungo.
In questa relazione in cui si dice ‘io ti amo’ c’è sempre una motivazione. ‘Io ti amo... perché... sei bella’. Che succede se la tua bellezza svanisce? Oppure ‘Io ti amo perché sei molto intelligente e benestante, così posso essere fiero di averti come ragazza’. Che succede se tu perdi queste qualità?

C’è il famoso esempio di Pietro nel Vangelo (può avere altri significati, io da quell’episodio ne sto prendendo uno solo). Se qualcuno è famoso e potente tu dici:
 “Oh, sì che lo conosco, quello è un mio amico!”. Quando la stessa persona è nei guai, probabilmente dirai:
“Lo conosco appena, ma non molto intimamente”.
E se un agente dell’FBI viene a chiederti:
“Lei conosce questo tizio? E’ stato accusato di omicidio”.
La tua risposta è:
 “Beh, l’ho incontrato una volta a una festa ma non lo conosco.”
E’ questo che succede; questa relazione ‘io amo te’ è una minaccia, è ipocrisia.
Quando c’è quella realizzazione diretta dell’infinito, quando realizzi che solo Dio esiste (o, ciò che esiste è Dio) e in quell’Essere cosmico noi siamo cellule, allora c’è purezza nelle relazioni, non c’è più un’immagine creata di sé. L’immagine di sé è scomparsa, essendo noi parte inestricabile di quell’Essere cosmico. Quello è Amore-Dio. Perché noi raggiungiamo quello stato Krishna ci dice:

mayy āveśya mano ye māṁ nityayukta upāsate

“Entra tu stesso in Me”, non cercare di contenere Me nel tuo cuore.
Restate sempre uniti all’Essere cosmico in questa maniera; allora sarete i più grandi tra gli yogi!




II

L’AMORE E’ DIO
E’possibile che qualcuno che abbia ascoltato un discorso sull’importanza e la gloria dell’amore, dica - Io amo mio padre (o mia madre o mio marito o moglie o figli), non basta questo? – Oppure, si può avere quel tanto osannato ardore: “Io amo il mio paese (o la mia religione), sono anche pronto a sacrificare la vita per il mio paese (o la mia religione)”. Tutte queste affermazioni difettano nel fatto che sorgono dall’ego, sono promosse dall’ego, praticate dall’ego e a loro volta promuovono l’ego ed è per questo motivo che tutti questi cosiddetti amori, che sono attaccamenti, scatenano sempre una reazione contraria.

L’Amore è completamente diverso. Sorge solo quando l’io è diventato zero. Questo lo si vede nel caso di una persona realmente illuminata quale Swami Sivananda o Baba Muktananda. Essi non hanno bisogno di dire “Io ti amo”. Nel loro stesso sguardo vedi qualcosa di straordinariamente stupendo. Quest’amore non sorge dalla personalità e non è neanche diretto alla personalità. Solo quello è amore.

Ye tv akṣaram anirdeśyam avyaktaṁ paryupāsate
sarvatragam acintyaṁ ca kūṭastham acalaṁ dhruvam
saṁniyamye ‘ndriyagrāmaṁ sarvatra samabuddhayaḥ
te prāpnuvanti mām eva sarvabhūtahite ratāḥ . XII,3,4

“Coloro che adorano l’immortale, l’indefinibile, il non-manifesto, l’onnipresente, l’inconcepibile, l’inamovibile, l’eterno, avendo portato tutti i sensi sotto il loro controllo, dalla mente equanime, dappertutto impegnati al bene di tutti gli esseri – certamente anch’essi vengono a Me soltanto”.

Questa è una descrizione di Amore-Dio.
Chi è questo Dio che ci chiedono di amare? Che cos’è questo Dio che è amore? L’amore che è in me (per così dire), che è Dio, l’amore che mi possiede completamente, mi trasforma, cambia la mia vita e rende per me impossibile non amare, non lascia alcuno spazio nel mio cuore per niente che non sia amore: quello è Dio.
Chi è questo Dio che, mentre mi sto ancora esercitando a coltivare l’amore, dovrei amare? Dio non è un concetto. Per noi è molto facile creare un concetto chiamato Dio e poi amarlo. Purtroppo è proprio questo che siamo arrivati a considerare amore nella nostra vita quotidiana.

L’uomo o la donna che tu ami oggi, non l‘amavi alcuni anni fa; vi siete incontrati e vi siete innamorati. Quella è in realtà una caduta! (fall in love, N.d.T.). L’amore che era sorto nel tuo cuore voleva in realtà abbracciare l’intero universo ma tu ti sei bloccato su questa singola persona. All’improvviso, uno di questi giorni qualcosa succede tra voi due e tu dici “Io non ti amo più”. Che cosa significa tutto ciò? E’ venuto da qualche parte, è sembrato esistere in qualche posto e poi è scomparso. Questo non è amore.

Noi siamo abituati a crearci un’immagine nella mente, un concetto - Questa è mia moglie, quindi io l’amo - e, naturalmente, legate a questo concetto, vi sono tante altre regole - lei è mia moglie e deve fare questo e non deve fare quello - se lei si attiene a queste regole, tu l’ami. Questo è amore appesantito, si tratta più di un peso che d’amore. Siamo abituati all’idea di creare qualcosa che è amabile e poi di amarla, basta che sia amabile secondo la nostra definizione! Facciamo lo stesso con Dio. Creiamo un concetto chiamato ‘Dio’ - Dio è la provvidenza, Dio si prende cura di me. Il grande me si è fatto di nuovo avanti. Ti consideri così importante in questo mondo che l’Onnipotente Dio deve prendersi cura di te, fra tutte le creature della terra? E, se non lo fa, quel Dio è abbandonato da te.
La maggior parte di noi tratta questo Dio, da noi stessi creato, come una specie di segretario: “Per favore, Dio svegliami a una certa ora domani mattina”. Siamo abituati a trattare questo Dio come una cosa, un concetto; e poi amiamo quel Dio perché lo abbiamo creato noi. Tu hai creato Dio nello stesso modo in cui crei un oggetto chiamato ‘marito’ o ‘moglie’ - una data persona è trasformata da un momento all’altro in un marito o in una moglie, nella tua mente. Quella non è la verità, la verità è qualcosa di completamente diverso.

A volte passiamo da un’idea di un Dio a un’altra. Se ad esempio sei un Indù e hai un Dio chiamato Śiva, Kṛṣṇa o Rāma, per un po’ di tempo continui con quello ma poi non sembra renderti alcun interesse, non succede niente (che cosa dovrebbe succedere? Deve forse Dio mettersi a danzare davanti a te?) Allora qualcuno ti dice: “Diventa un sufita, otterrai istantaneamente l’illuminazione”, ed ecco che cominci la pratica di battere le mani e danzare. Oppure diventi un cristiano o un buddista. Il Dio indù è abbandonato, non lo ami più e un altro prende il suo posto. Io non sto qui a scoraggiare queste possibilità, perché possono anche avere un loro significato particolare - ma in questo caso sono solo creature della mente! E’ naturale che la mente ami le sue creature ma questo non risolve il problema fondamentale posto dall’ego. Quando la mente ama la sua creatura, l’ego è rafforzato e continua a creare problemi. Quello che è creato dalla mente è più piccolo della mente stessa, non è l’infinito.

L’infinito non può essere creato dalla mente. La mente, quando è risvegliata spiritualmente e quando vi sorge la saggezza, offre se stessa a Dio; e quel Dio è “Colui che è”. In Sanscrito due parole sono frequentemente usate per rappresentare Dio – iśa e iśvarah. ‘Iśa’ vuol dire ‘è’ - non ciò che io penso che sia, un concetto creato dalla mente, ma ciò che è. Il mistico indiano non è interessato a provare che Dio esista. Egli capovolge il tutto e dice, “Ciò che esiste è Dio”. Essendo il tempo un modo del pensiero, ciò che esiste al di là del tempo è Dio, quello che è indistruttibile, immodificabile, che non decade.

Cos’è questo Dio? I mistici orientali ci hanno dato un esempio (da non prendere alla lettera): Dio è ākāśavat sargavata nityaĀkāśa - come lo spazio (non è lo spazio, perché lo spazio è anch’esso un modo del pensiero); sargavata - onnipresente; nitya - eterno.

Uno può usare quest’idea per un esercizio di meditazione. Prima visualizza una presenza divina interiormente e poi immagina questa presenza espandersi, riempire il tuo intero corpo, riempire questa stanza, l’intero universo, come lo spazio - e tu stai entrando in quella presenza. Tu non sei una non-entità ma non hai esistenza separata da questo Dio.
Ecco la bellezza dell’insegnamento: tu non sei una non entità, non sei un’illusione ma non sei un’entità indipendente, non sei neanche indipendente da altri; ma nello stesso tempo non sei dipendente da qualcuno in particolare, come per dire che non lo sei da altri o altro. E’ una totalità cosmica.
Ākāśa - come lo spazio. Siamo circondati dallo spazio, lo spazio c’interpenetra; lo spessore del nostro corpo è anche spazio, la lunghezza e la larghezza del corpo è anch’esso spazio - e come tale è indistruttibile. Se “io” esiste, è una piccola particella, una piccola cellula in quell’Essere cosmico.

Se questa verità è subito afferrata e realizzata sorge una nuova visione in cui c’è una nuova relazione. Tu ed io siamo in relazione, ma non come parentela, non tu come mio padre, mia madre, mia moglie, mia sorella o mio fratello (in cui mio è molto importante), ma noi come cellule nell’unico corpo cosmico di Dio.  E’ una visione stupenda - l’amore continua a essere, forse solo allora impariamo che significa amare o meglio, amiamo - non impariamo neanche che cosa vuol dire amare; amiamo senza chiedere domande, senza un motivo, senza un perché; amiamo, se dev’esserci un perché, perché non possiamo farne a meno. In quel cuore non c’è assolutamente spazio per nient’altro. Quello è amore, quello è amore divino e quello è amare Dio.

Un sant’uomo, Swami Ramdas diceva: “Amare Dio è amare tutto e tutti, amare tutti non è amare una persona particolare ad esclusione di altre”. Nell’interpretare questa frase bisogna usare molta cautela. Non vuol dire che quindi tu non amerai tuo marito o tua moglie. Li ami, ma non ad esclusione di altri.
C’era una donna, una mistica sufita la quale, quando era bambina, ricevette da studiare una scrittura islamica in cui trovò quest’ingiunzione: “Ama Dio e odia il demonio”. Allora lei prese la penna e cancellò ‘odia il demonio’. Quando il maestro le chiese di motivare quella mutilazione di una sacra scrittura, la risposta della ragazza fu: “Io capisco la prima parte della frase - e amo Dio così tanto che nel mio cuore non c’è alcun odio, neanche per qualcosa che voi potete chiamare demonio”.
E’ una visione stupenda. Tu ami tuo marito o tua moglie, tuo padre, tua madre - ami tutti - ma senza escludere alcuno o alcun’altra cosa. Non è amore così come lo conosciamo ora “Questo è mio amico, lo amo e quindi odio quell’altro”, oppure “io amo lui più di ...”. Non ami nessuno più di alcun altro, benché l’espressione di quell’amore possa essere differente. Per esempio, se hai due animali domestici - un gatto e un elefante e li ami entrambi con la stessa intensità, non andrai a mettere una tazzina di latte anche davanti all’elefante e - perché l’elefante mangia un’intera noce di cocco - non andrai a dare la stessa cosa anche al gatto! Li ami in modo uguale, anche se l’espressione di quell’amore differisce. Questo è possibile solo se l’amore non è diretto verso una personalità, ma verso l’assoluto impersonale.

Dio è qualcosa che non può essere delineato; tutto quello che è descritto è limitato, è un concetto. Un concetto è creato dalla mente, sostenuto dalla mente ed è più piccolo della mente; entra nella mente ed esiste nella mente. Ma qui ci viene detto che la mente e il cuore devono entrare in quell’Essere cosmico, in Dio. In genere noi crediamo di possedere questo Dio, ma qui ci viene detto “Arrenditi a questo Dio”. Solo allora conoscerai l’amore, altrimenti non saprai cosa vuol dire. Quel Dio è anirdeśyam - indescrivibile (non puoi indicare qualcosa e dire - questo è Dio - ad esclusione di qualcos’altro); avyaktaṁ - non manifesto, e per questo intangibile.

Quello che il devoto fa verso Dio è chiamato upāsanā - adorazione o servizio divino. La parola upāsanā letteralmente vuol dire ‘sedersi vicino’, ‘sedersi accanto’, ma in pratica è venuto a significare qualche tipo di culto rituale. Può succedere però che durante quel culto, mentre suoni la campanella, ondeggi la lampada e fai ogni sorta di cose meravigliose - che sono belle e appariscenti – tu non ci sei proprio! Lo scopo è di stare seduto vicino a Dio ma, se stai suonando la campanella, ondeggiando la lampada e stai guardando qualche altra persona dietro di te, non stai seduto vicino a Dio; dovunque ti trovi invece, se penetri nello spirito di quest’insegnamento, stai seduto vicino a Dio.

Essendo Dio onnipresente non sei mai separato da lui. Ci sono dei racconti divertenti nella Bhagavatam in cui qualcuno riceve una maledizione del tipo “Andrai all’inferno!” e lui risponde: “Essendo Dio onnipresente, deve stare anche all’inferno; non mi dispiace andarci”. Uno che realizza l’onnipresenza dell’Essere cosmico, di Dio, non è mai lontano da lui, per cui questo ‘contratto’ d’amore è indissolubile. Non c’è via d’uscita!
Dio pervade l’intero universo. Da chi fuggirò? E nelle braccia di chi andrò, quando lui e lui solo è dappertutto?


III

COME AMARE DIO?
Anche se stiamo trattando bhakti e l’amore divino, il più sublime dei soggetti, spero che non perdiate di vista l’effetto di quest’amore sulla nostra vita, giorno dopo giorno. Se realizzate che Dio è onnipresente, chi odierete e da chi fuggirete? Di chi sarete gelosi?

Nel momento in cui anche solo questo sentimento sorge in noi c’è un forte e subitaneo cambiamento nel nostro atteggiamento verso la vita. (La realizzazione di Dio e tutto il resto viene dopo). Siamo incapaci di odiare, siamo incapaci di gelosia. Se tu odi una donna, la guardi e pensi “Lei anche è Dio, la stessa onnipresenza. Devo odiarti o Dio? Lasciamo perdere”. E’ finito. Il problema scompare prima che abbia la possibilità di sorgere. Impariamo giorno dopo giorno a vivere a contatto con Dio.

… sarvatragam acintyaṁ ca kūṭastham acalaṁ dhruvam. XII,3

Sarvatragam - è come lo spazio, dappertutto; - acintyaṁ - non è un oggetto del pensiero. Questa è una definizione (se così la si può chiamare) molto importante; Dio, decisamente non è un oggetto del pensiero; è il soggetto, nel senso di Soggetto cosmico. Questo è il motivo per cui i saggi dicono che Dio è il testimone di tutte le menti. Kūṭastham acalaṁ dhruvam - ed egli è stabile, inamovibile, immobile, perché è in ogni luogo, non può togliersi da una parte e portarsi in un’altra.

saṁniyamye ‘ndriyagrāmaṁ sarvatra samabuddhayaḥ
te prāpnuvanti mām eva sarvabhūtahite ratāḥ . XII,3,4

Coloro che sono devoti a Dio, che hanno imparato l’arte di sedere a contatto con Dio, trovano il controllo di sé naturale, facile e spontaneo. Significa forse che quello yogi non mangia, non lavora, non esprime emozioni, non si sposa, non ha bambini e non guadagna? Tutto è fatto. - saṁniyamye ‘ndriyagrāmaṁ - tutti i sensi sono sotto controllo; l’intero corpo e la mente sono sotto controllo. Quello che qui non viene detto è sotto il controllo di chi essi sono.
Una delle situazioni impossibili nella meditazione è quando cerchi di meditare; quello non lo potrai mai fare. Finché stai provando, ti stai sforzando, stai allontanando la meditazione; lasciati andare in Lui. Perché tu dovresti meditare su Dio? Perché non dovrebbe essere Dio a meditare su te? Sentendo dentro di te “Dio, tu sei infinito, io non posso meditare su te, io non posso comprenderti”, lasciati andare. Allora la meditazione avviene.

Esattamente nella stessa maniera, se vuoi liberarti di una cattiva abitudine cerca di non lottare. Se fumi e dici: “Oh io voglio smettere di fumare”, con tutta probabilità non lo farai. Probabilmente comincerai a fumare la notte, anche nei sogni, perché la mente resta attaccata anche nei sogni, la mente resta attaccata a quell’abitudine, la mente ne è satura. Sono sicuro che abbiate avuto questa esperienza: se tu ami me e odi lui, è probabile che tu pensi a lui più spesso di quanto pensi a me. La cosa che odi ti possederà completamente e totalmente. Infatti ci viene detto che i demoni che odiavano Kṛṣṇa ottennero mokṣa (la liberazione) più rapidamente! Kamsa, suo zio, lo odiava e durante gli ultimi giorni, quando sapeva che Kṛṣṇa sarebbe venuto ad ucciderlo, non pensava che a lui - e ottenne la liberazione.

Quindi, se vuoi liberarti di una cattiva abitudine, consegnala a qualcun altro: “Dio io questo non sono capace di farlo, se tu pensi che può essere fatto, tu provaci, non io”. Funziona in modo incredibile. Il valore dell’abitudine scompare immediatamente. Fumare o non fumare sono ambedue viste come cose stupide, senza valore. Nel momento in cui il tuo cuore (non la tua mente, non le labbra) dice “Sia fatta la tua volontà”, ambedue le alternative hanno perso il loro valore. I cieli non cadranno se tu fumi una sigaretta in più, né cadranno se smetti di fumare - uno di questi giorni smetterai senz’altro di fumare, se non da vivo, da morto! Perciò, di cosa mai ci preoccupiamo? Perché ritieni così importante che tu debba o non debba fare quest’azione? Nessuna delle due è importante...

Quando riesci a dire “Signore, sia fatta la tua volontà”, un peso enorme viene tolto dalle tue spalle! C’è pace dentro - quindi non c’è agitazione e il gioco della mente e dell’ego è visto tanto chiaramente quanto (per usare un’espressione dal sanscrito) un frutto appoggiato sul palmo della tua mano. Quello che sorge allora è controllo della mente e dei sensi.

Questo controllo può non riguardare il fumo, ma ad esempio, è possibile che un ragazzo e una ragazza, ambedue propensi alla riflessione spirituale si stiano guardando l’un l’altro. Lui dice “Mio Dio, sono tentato! Signore non devo più guardarla!” Ecco che comincia a sognare di lei, cosa che non serve proprio a niente. Se invece lui può dire “Signore, nessuna di queste due cose è importante; è possibile che m’innamori di lei ed è possibile che non penserò più a lei - sia fatta la tua volontà”, l’ego si è reso conto - non è compito mio.

Nessuna di queste cose ha valore - innamorarsi o non innamorarsi sono ambedue stupide. Quando ci si rende conto di questo, non c’è nessuna agitazione interiore, il cuore è in pace e c’è una chiara comprensione di upāsana (stare seduti accanto a Dio). Questo è il controllo a cui ci si riferisce; tu non controlli la mente e i sensi. Colui che E’ (Dio) controlla la mente e i sensi in accordo alla sua volontà. Può ugualmente accadere che t’innamori e ti sposi - bene, va avanti. E’ anche possibile che questo non accada - bene, nessun cattivo sentimento. Forse potrai guardare quella ragazza e dirle “Arrivederci cara, penso che tra noi non accadrà nulla” e può anche capitare che dopo un paio di giorni la vedi passeggiare abbracciata a un altro - e non c’è assolutamente alcun astio. Quello è controllo, ed è un controllo che non è mantenuto dall’ego, ma che avviene.

Nel caso di una persona che capisce quest’insegnamento e che vive nell’amore divino, il controllo della mente e dei sensi avviene - e non c’è assolutamente lotta o sforzo, non c’è neanche l’idea preconcetta di come un evento debba svolgersi o che non debba accadere. C’è resa totale, perché quella persona è entrata nell’Essere cosmico.

Sarvatra samabuddhayaḥ te prāpnuvanti mām eva - colui che sa che Dio è onnipresente, che solo Dio è, che sa di essere sempre vicino a quell’Essere cosmico, sarà naturalmente e vivamente dedito al bene di tutti gli esseri; sarvabhūtahite ratāh - spontaneamente interessato al bene di tutti gli esseri, non ha spazio nel suo cuore per pensare male.

Ci viene detto che una persona tale tratterebbe persino gli elementi - terra, acqua, fuoco e aria - con rispetto, con amore. Io ho visto questo nel caso del mio guru Swami Sivananda e raramente nel caso di qualche altra persona. Il modo in cui egli maneggiava per esempio l’astuccio degli occhiali (ma qualunque altra cosa) era stupendo. Vederlo chiudere e aprire l’astuccio degli occhiali, vederlo mentre l’appoggiava con tanto amore, con tanta riverenza, era una gioia. Per lui era come se si trattasse di un bambino piccolo e delicato. Quando si metteva le scarpe c’era quello stesso amore e quel senso di riverenza.

A volte io presto la mia penna stilografica a qualcuno, per far firmare loro una lettera o scrivere qualche parola, e questi la richiude e me la ridà. Più tardi mi accorgo che per aprire di nuovo la penna devo tornare da lui! L’ha chiusa così forte che io non riesco ad aprirla. Poi ci sono persone che non sanno come chiudere una porta, conoscono un solo metodo - sbatterla!
Io non ho mai visto Swami Sivananda fare cose del genere. Eppure era alto, grosso, pesante - ma camminava con un’andatura così dolce che, se un insetto capitava sotto le sue scarpe, non sarebbe stato schiacciato, tanto era l’amore nei suoi passi. Nell’antica letteratura sanscrita il paragone viene fatto con l’elefante che pur così grande e pesante ha un senso di delicatezza nella sua andatura.
Sarvabhūtahite ratāh - uno che si interesserebbe subito, spontaneamente al bene di tutti gli esseri. Questo non vuol dire che tale persona non ammonirebbe un discepolo e non sarebbe duro in certe situazioni. Noi abbiamo la nostra immagine di che cosa vogliano dire violenza e non-violenza. Non è che se tu fossi un chirurgo e io avessi un problema serio diresti: “Oh, io non userò questa lama sul tuo corpo” - sarebbe assurdo! Anche la violenza e la non-violenza, l’amore e le altre qualità devono essere apprese da questi grandi uomini o yogi.
Essi sono dediti al bene di tutti gli esseri, non solo a te e a me. Cosa vuol dire solo loro lo sanno, ma dalle loro azioni, dal loro atteggiamento verso la vita, dal modo in cui vivono e dal modo in cui parlano ti rendi conto che quello è amore, quella è non-violenza.

kleso ‘dhikataras teṣām avyaktāsaktacetasām
avyaktā hi gatir duḥkhaṁ dehavadbhir avāpyate (XII,5)

E’ facile per ognuno essere così devoto a questo Dio onnipotente che è al di là del pensiero, che è anche più sottile dello spazio?
Kṛṣṇa ammette che, per degli esseri come noi che abbiamo un corpo, non è sempre facile essere devoti a un Dio totalmente impersonale, ad un Essere totalmente non-manifesto.
L’interpretazione ortodossa di questo verso sancisce l’adorazione degli idoli. Studiamo bene questo verso fin dall’inizio; esso viene interpretato a significare: “Essendo voi degli esseri aventi un corpo ed essendo difficile per degli esseri aventi un corpo essere devoti al non-manifesto - alla coscienza assoluta, infinita e così via - vi è permesso di essere devoti a divinità manifeste quali Rāma, Kṛṣṇa, Buddha, Gesù, e così via”. Questo può essere vero.

Nella pratica della devozione tutto può essere usato come mezzo per crescere nella consapevolezza di Dio. Tutta la frase è importante. “Possiamo usare qualunque cosa e tutte le cose per crescere nella coscienza di Dio”. Neanche una piccola parte di questa frase dev’essere ignorata. L’ho ripetuta perché sarebbe pazzesco dire “E quindi possiamo andare avanti adorando un idolo qualsiasi per il resto della nostra vita”. No! Lo scopo è quello di crescere nella coscienza di Dio.
Stai crescendo nella coscienza di Dio o sei rimasto bloccato in questo culto di un idolo? Tu non sai cosa voglia dire amare Dio, per questo puoi usare un ritratto o un’immagine di Krishna, Buddha o Gesù: proprio per coltivare quest’amore dentro te stesso, per godere della vicinanza di Dio – upāsāna. Se, però la tua coscienza rimane circoscritta ad un ritratto o ad un’immagine, ovviamente stai perdendo tempo. Vai nel tempio o nella stanza in cui preghi per avere esperienza della prossimità di Dio; poi quando esci cominci a renderti conto “Dio è anche qui in quest’uomo”.

Ma, senti lo stesso fremito e la stessa ispirazione in sua presenza come lo sentivi in presenza di Krishna, Gesù o Buddha nel tempio? Se è così, c’è un valore formidabile in quella pratica che stai facendo. Quando hai così imparato a sentire quella presenza, quell’amore deve naturalmente fluire verso tutti. La coscienza divina deve espandere in cerchi concentrici, finché non abbraccia l’infinito.

Non so se avete pensato ad un atteggiamento che è vero sia dell’amore umano che dell’amore divino per quanto riguarda templi, icone e così via. Parliamo prima dell’amore umano. Quando tieni tra le mani il viso della persona che ami, dici “Ti amo” e poi ti avvicini e chiudi gli occhi. Abbracci un bambino e chiudi gli occhi. Perché è così? Forse non ti piace guardarlo? No, è un riconoscimento del fatto che c’è amore nel tuo cuore.
L’amore non viene dall’altra persona. Siccome tu non sapevi come trovarlo hai avuto bisogno dell’altra persona per provocarlo; quando ce l’hai, chiudi gli occhi e ti rendi conto “L’amore è nel mio cuore - ora tu non sei più necessario”. La stessa cosa avviene quando vai in un tempio o in una chiesa.

Sulle montagne himalayane ci sono delle cappelle. Fino a trenta o quarant’anni fa, andare in quei posti voleva dire mettere in pericolo la propria vita - tanta era l’asprezza dei luoghi e la fatica che vi s’incontrava. I devoti venivano da lontano, molto lontano, spendendo migliaia di rupie e molta fatica fisica, camminando per tre o quattrocento miglia per arrivarci. Lì trovavano una piccola immagine del Signore Narayana, posta in una stanza anche abbastanza buia. Il sacerdote accendeva della canfora, la ondeggiava e diceva “Narayana”, e tutti chinavano il capo.
Se quei pellegrini non volevano guardare quell’immagine, mentre il prete ondeggiava la canfora, perché arrivavano fin lì? Perché non avrebbero potuto generare quello stesso sentimento a casa loro. Essi sapevano che lì il sentimento lo avrebbero avuto e allora chiudevano gli occhi, godendo di quel sentimento dentro di loro.

Noi abbiamo bisogno di questi supporti e ausili esterni per ottenere il sentimento o l’esperienza interiore; abbiamo bisogno di amare qualcuno per sapere che cosa vuol dire amare, ma se ci blocchiamo lì, vi restiamo intrappolati ed è finita. Senza restarne intrappolati, dopo aver avuto esperienza di quell’amore, possiamo permettergli di espandere in modo che inviluppi l’intero essere di Dio? E’ tutto qui.

Per questo un grande santo come Swami Sivananda fu devoto al culto delle icone per tutta la sua vita, benché egli insistesse che il culto non dev’essere confinato a icone o idoli. Avendo avuto esperienza della presenza di Dio nell’idolo e attraverso di esso, cerca di trovare la stessa esperienza in tutte le relazioni. Dio è in quell’idolo o icona perché è onnipresente. La tua mente e il tuo cuore associano quell’icona con Dio, perciò sei avvantaggiato. (Quando invece si tratta di una persona, sai che si tratta del sig. X o della sig.ra Y, perciò c’è un po’ di difficoltà; devi dire “Questa è la sig.ra Y, ... ma è Dio”, mentre, nel caso di quell’icona o immagine, la mente dice immediatamente che si tratta di Kṛṣṇa, di Dio).

Essendo Dio dappertutto, è anche in quell’icona e quindi quell’icona può essere venerata. Ma, se il tuo amore si ferma lì, confinato a quella, naturalmente hai perso di vista lo scopo. Se non resti confinato, allora puoi adottare qualsiasi forma.  Yo-yo yāṁ-yāṁ tanuṁ bhaktaḥ śraddhayā ‘rcitum icchati ... (VII,21) dice Krishna nella Bhagavad Gita. Qualunque forma tu desideri adorare, adorala fintando che ivi senti la presenza di Dio. Ma, per favore ricordati che Dio non è confinato ad alcuna cosa o immagine - è l’Essere onnipresente. Questo è un punto di vista.

Un’altra interpretazione è possibile: essendo noi in un corpo materiale, non possiamo consacrarci all’assoluto, non-manifesto, impersonale, perciò quest’amore divino deve necessariamente significare amore di tutti gli esseri umani, di tutti gli esseri viventi. Avendo un corpo, essendo umani, è molto difficile per noi saltare sulle nostre stesse spalle e fingere di poter aver esperienza della presenza di Dio in maniera impersonale, non-manifesta. Quindi è meglio che ci applichiamo all’altro esercizio: di vedere Dio in tutti. Appena vedi qualcuno dici “E’ la sig.ra Tal dei Tali ... no, aspetta un po’ - essendo Dio onnipresente, anche lei è una manifestazione dello stesso Dio”.
Ci vuole un po’ di sforzo quando si inizia, finché poi non diventa spontaneo.




IV

LA PIU’ PICCOLA DELLE MIE CREATURE

Spesso abbiamo immagini distorte ma molto forti, e queste si estendono anche a quella che chiamiamo vita spirituale - abbiamo immagini decise, ben foggiate, ben inquadrate di come dovrebbe essere una persona spirituale, uno hatha yogi, uno jṅāna yogi o un karma yogi.

Questa costruzione d’immagini porta ad un duplice problema: da una parte, se non sei uno yogi genuino, ti rendi conto di che sorta d’immagine di uno yogi altri hanno nella propria mente e fai in modo di conformarti a quell’immagine per ottenere la loro approvazione; dall’altra le persone vengono facilmente ingannate. Ecco che questa costruzione d’immagini crea ipocriti da un lato e sprovveduti dall’altro.

Se vuoi essere un bhakti yogi, hai un’immagine eccezionale, perfetta di uno che ama Dio, un’immagine presa da descrizioni in varie scritture. Queste rappresentazioni - si tratta solo di un quarto di un verso di testi voluminosi composti di cinque o diecimila versi – ma sono accattivanti e le usi per creare la tua immagine.

Ecco due esempi che sono capitati a me. In qualche scrittura c’è questa descrizione: “Quando un devoto di Dio sente il Nome di Lui, tutti i suoi capelli si drizzano e le lacrime sgorgano dai suoi occhi”. Nel nostro ashram a Rishikesh un grande bhajani (uno che canta in maniera molto bella i Nomi di Dio) era venuto a farci visita e, mentre cantava io ascoltavo con molta attenzione. C’era una giovane donna tra gli spettatori che sollevava di continuo un lembo del suo sari per asciugarsi gli occhi, durante tutto il canto di quest’uomo. Io, osservando il fenomeno, sentii un po’ di gelosia pensando “Che grande devota; quando mai comincerò anch’io a versare lacrime d’amore divino come fai tu?” Una settimana dopo, il marito di questa donna venne a cercarmi, avendo sentito che praticavo la medicina omeopatica, e mi disse:
“Swami, vorrei consultarmi con lei per mia moglie: ha un grave problema di lacrimazione costante, le sue ghiandole lacrimali sono sempre in funzione e deve continuamente asciugarsi gli occhi. Pensa di poterla aiutare?”
Che immagine - e quale distruzione della stessa immagine!

Un altro esempio fu una delusione ancora maggiore. Un uomo grande e grasso che cantava in maniera ispirante venne all’ashram dalla parte orientale dell’India. Appariva come un grande devoto: ogni cosa che faceva era accompagnata da ‘Hari Om’, ‘Hari Bol’. Quando mangiava era tutto un rituale; mangiava da solo, perché aveva bisogno del doppio del tempo che impiegavamo noi per mangiare - non perché mangiasse molto, ma perché diceva ‘Hari Bol’ prima di ogni boccone. Se andava al Gange per farsi il bagno si immergeva nell’acqua come facevamo anche noi, ma ogni volta che s’immergeva ‘Hari Bol’! Quindi ogni azione la faceva nel nome di Dio. Meraviglioso!

Un giorno quest’uomo volle andare a fare un breve pellegrinaggio in Himalaya in un posto chiamato Deoprayag. Lo accompagnammo alla stazione degli autobus e pregammo il fattorino di farlo sedere sul sedile a fianco all’autista, l’unico singolo e con schienale; tutti gli altri posti erano panche su cui cinque passeggeri dovevano trovare posto.
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Il viaggio d’andata fu comodo ma, per il ritorno purtroppo non ci fu nessuno a Deoprayag che l’aiutasse ad avere lo stesso comodo posto e, per sua sfortuna, il posto con schienale era stato dato ad un ufficiale di polizia, quindi dovette stringersi su una delle panche. Benché fosse grande e grosso, non lasciarono che la panca fosse occupata da solo quattro persone, per cui gli toccò viaggiare come una sardina – molto scomodo per lui ma comodo per gli altri che l’avevano come cuscino da un lato!  A lui non piacque per niente: arrivò all’ashram verso le tre del pomeriggio. Dalla mia stanza, che era proprio sulla riva del Gange, lo sentii guazzare nell’acqua ma invece dell’abituale ‘Hari Bol’ ora imprecava e malediceva il fattorino dell’autobus. Il viaggio sull'autobus era ormai finito e ora stava prendendo un bagno nel Gange, ma nemmeno allora poté trattenere la sua ira. Io pensai “Cos’è successo al suo ‘Hari Bol’?”

Abbiamo un’immagine di un devoto e se uno è conforme a quell’immagine, che sia o no un devoto, lo veneriamo.
Nella Bhagavad Gita tutte quelle immagini sono costantemente e persistentemente infrante. Un devoto non è chi canta i nomi del Signore o fa questo o quello solamente - in qualsiasi maniera estatica egli riesca a farla - ma è uno che unisce in se stesso le caratteristiche fondamentali di altri yogi appartenenti ad altre scuole o tradizioni.

C’è un avvertimento specifico nel Bhagavatam - sei benvenuto ad adorare Dio nei templi e nelle immagini ma, se mentre fai questo hai un sentimento di odio anche per la più piccola delle sue creature, la tua devozione è inutile.
Lo trovate anche nel Vangelo, quando Gesù dice:
 “Se dunque tu stai presentando la tua offerta all’altare ed ivi ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta lì dinanzi all’altare, e va prima a riconciliarti con tuo fratello; poi torna e presenta l’offerta” (Mt. 5,23-24).
“Ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a Me” (Mt,25,40).
Quindi non ha alcun significato dire “Io amo Dio e odio tutto il resto”.

L’odio non può trovar posto nel tuo cuore se realmente e sinceramente ami Dio. Questo è proprio il motivo per cui amare Dio è il rimedio per problemi interpersonali; se odi lei (o lei odia te) questo non può essere risolto con la psicanalisi o la psicoterapia. Solo se ti s’insegna come amare Dio e poi a vedere Dio anche negli altri, il tuo odio scomparirà. Ami lui, non come Sig. X, ma come Dio. E’ un rimedio profondo e quasi infallibile per l’odio umano.

La psicanalisi, le consultazioni psicologiche, le consultazioni matrimoniali, ecc., spesso sono temporanee e molte volte controproducenti, perché voi due non vi amate. Un consigliere ti dice che vi dovete amare e vi dà il motivo per cui dovete farlo. Appena lui è andato via e la situazione cambia, siete di nuovo in situazione fallimentare; non funziona. Qualsiasi amore basato su un calcolo umano è una negoziazione, non è amore. Se ti s’insegna ad amare Dio e ti risvegli interiormente alla verità che Dio dimora in tutti, allora il problema è risolto. Questa devozione comporta servizio non-egoistico dell’uno verso l’altro.

L’autodisciplina è il fondamento del rāja yoga, la conoscenza l’elemento base nello jṅāna yoga, ed il servizio non-egoistico nel karma yoga. Rāja yoga, jṅāna yoga e karma yoga sono tutte incluse nella devozione o amore divino - altrimenti non si tratta d’amore. Non puoi dire a una ragazza - Oh, io ti amo - e poi mentre l’abbracci con le mani le tiri dei calci con i piedi; non puoi dire: “Le mie braccia ti amano e i miei piedi ti odiano”! Non è possibile, è assurdo; se l’ami, tutto il tuo essere l’ama - il tuo cuore, la tua mente, il tuo corpo, tutto. Allora quell’amore è reale, altrimenti, dove ci sono delle riserve, c’è qualcosa che manca, qualche parte di te non l’accetta. Quando c’è una di queste lacune, è solo questione di tempo e le altre parti si uniranno a quelle che non accettano. Per questo il bhakti yoga o devozione a Dio abbraccia l’essenza fondamentale di altre differenti discipline.

Mayi saṁnyasya matparāh. Per essere un vero devoto del Signore, deve esserci sannyasa (tradizionalmente il voto di rinuncia di un monaco). Puoi raderti i capelli o farti crescere i capelli e la barba lunga - questo è molto facile, dov’è la difficoltà? puoi cambiare lo stile dei tuoi capelli - ma non puoi cambiare quello che c’è dentro la testa. Dei grandi sannyasi possono dirti che radersi la testa è solo un simbolo, che indica lo sbarazzarsi dello schema di abitudini formatosi nel cervello - radere la mente dei suoi pregiudizi e delle sue ideologie. Ma questa seconda parte non è facile, e quindi la dimentichiamo. E’ sannyasa semplicemente indossare quest’abito color ocra? (L’abito non fa il monaco - e spesso nasconde il furfante!).

Se sannyasa vuol dire rinuncia, abbandono del mondo, abbandono di tutte le relazioni, allora che fine ha fatto l’amore? Posso amare Dio e abbandonare tutto ciò che rappresenta Dio? Posso amare Dio e odiare te, abbandonare te? Kṛṣṇa dà delle definizioni davvero rivoluzionarie di sannyasa nella Bhagavad Gita.

kāmyānām karmaṇām nyāsaṁ saṁnyāsam kavayo viduḥ (XVIII,2)

“Colui che abbandona ogni attività egoistica è un sannyasi”.
Questo è estremamente difficile e lo puoi fare solamente se sei come un bambino appena nato. Ora qui viene indicato un altro aspetto: ye tu sarvāṇi karmāṇi mayi saṁnyasya matparāḥ (XII,6). Qui sannyasa vuol dire ‘ben posto’, “colui che ripone tutte le sue azioni in Me”. Per fare questo non basta mormorare: “Io non faccio nulla, Dio fa tutto”, ma occorre entrare nello spirito, penetrare col proprio cuore e la propria mente in Dio. Quando il cuore e la mente sono riposte in Dio, naturalmente tutte le azioni sorgono in Lui. Se tu stesso sei in Dio, chi agisce? Non tu! Per esempio, sono io che sto parlando ora, non la lingua, perché la lingua da sé non ha il potere di parlare; la lingua è semplicemente uno strumento, sono io che parlo. Quando io sono dentro questo Dio, quando ho fatto entrare me stesso in quell’Essere onnipresente, chi agisce? Non io ma Lui. Quello è sannyasa - porre ogni azione dove e a chi appartiene. L’azione è di Dio e sorge in Dio.

Se entri in questo stato per un momento, lo troverai così bello, così elettrizzante - diventi simultaneamente tutto e niente. L’ego come tale è impotente ma quando non c’è, l’onnipotenza sorge. La bellezza di sannyasa è che impari a porre ogni azione lì dove appartiene, nella verità; non ci viene chiesto di avere allucinazioni o di immaginare, ma di realizzare.

Tu, da solo, non puoi fare assolutamente nulla; è lui che fa tutto. Quello che tu sei guidato a fare in lui è parte di quell’onnipotenza; la tua esistenza è parte di quell’infinito. L’infinito si manifesta in modi indescrivibilmente infiniti - la bionda, la bruna, quella con il viso squadrato e quella con il viso lungo, ecc. Non paragonare e mettere in contrasto - questa è una bella faccia, quella è brutta - ma semplicemente renditi conto che questa e quella sono manifestazioni dell’infinito. Perché le persone fanno tante cose diverse? E’ la gloria del Dio infinito. L’infinito è capace di operare infiniti miracoli in un numero infinito di luoghi. Quando realizzi questo, è allora che cominci ad amare chiunque - ad amare tutti.

Lo Yoga Vasistha dice con molta semplicità che, chi è uguale nelle due seguenti circostanze è una persona illuminata: 1) la più bella donna vuole abbracciarlo e corre verso di lui, 2) un assassino con un pugnale in mano viene per ucciderlo. Lui sorride ad entrambi: “Dio può fare questo e Dio può fare quello”. Perché no? L’infinito Dio si manifesta in infiniti modi.
Quello è sannyasa - porre un’azione nella verità, dove appartiene; la verità è: “Tutto questo sorge in Dio, esiste in Dio ed è dissolto in Dio; Non c’è niente se non Lui: Lui è il fautore di tutte le azioni”.

Milioni di cellule stanno portando avanti una varietà di funzioni, ma tu dici: “Io sto digerendo il mio pranzo, io sto parlando, io sto vedendo”, perché tutti questi milioni di cellule sono totalmente dipendenti da te, sono i tuoi strumenti. Allo stesso modo, qualunque cosa facciamo - azioni che sono considerate buone, cattive o neutre - tutto è fatto da lui.

ye tu sarvāṇi karmāṇi mayi saṁnyasya matparāḥ
ananyenai ‘va yogena māṇ dhyayānta upāsate (XII,6)

Questo è un nuovo yoga - ananya yoga - dove non c’è un altro. Non solo tu non sei separato da me, ma anche questo Dio onnipresente non è separato da me. Baba Muktananda spesso cita le seguenti parole: “Se un devoto pensa che egli è diverso dal Dio che sta adorando, quel culto è inutile. Se tu pensi che il mantra è diverso da te, quel japa è inutile. Devi realizzare l’identicità del mantra, del sé e di Dio. Allora il mantra viene immediatamente attivato”.

Questo è lo yoga della non-divisione. Io non sto facendo nulla per far piacere a Dio né voglio che Dio faccia un piacere a me; non c’è un supplicare, non c’è questo modo di pregare. Pregare è diventato qualcosa di così distorto che ci manca solo di cambiare il modo di scriverlo. Non pre-gh-iamo più ma pre-d-iamo, stiamo sempre usando Dio per le nostre prede: “Dio dammi questo! Dio dammi quello!” Quel Dio non si fa certo preda né si fa predatore, ma si tiene ben lontano da noi!

Swami Ranganathananda (capo spirituale della Ramakrishna Mission, N.d.T.) una volta fece osservare che Dio esita prima di farti il dono della devozione. Preferisce darti la liberazione, perché se hai ottenuto la liberazione, non c’è problema, è tutto finito; ma se diventi un devoto, da allora in poi cominciano i suoi mal di testa. Giorno dopo giorno dirai “Dio, per favore fa questo, Dio, per favore fa quello; voglio meditare, quindi per favore chiedi a tutti questi cani di stare zitti, ecc.”

Ananya yoga: quello che è vero nella relazione tra il devoto e Dio è vero di noi, a un livello puramente interpersonale. Se due di voi si amano, quell’amore è reale, è valido solo se c’è non-differenziazione - se non c’è neanche l’idea che tu sia differente da lei e che perciò l’ami. Degli atteggiamenti possono venire esaltati da alcuni come per esempio: “Io ti amo tanto che posso sottopormi a qualsiasi scomodità per soddisfare te”. Non so se alcuni di voi sono stati soggetti a questo - per me si tratta di una tortura. Quando qualcuno ti dice: “Sai, ti amo tanto ... sono stanco, vorrei solo dormire e mi fa male la schiena ... comunque ti preparerò una tazza di tè”, quella diventa veleno.

Eppure quest’atteggiamento viene esaltato nella società; pensiamo che torturandoci con qualche sorta di comportamento masochistico, facciamo piacere al partner ma è assurdo. L’altra persona ne riceve un piacere temporaneo, ma prima o poi questa relazione diventerà amara e si romperà. Prima o poi l’uno rinfaccerà all’altro: “Per te, con tutto il mio mal di testa, ho fatto quella cosa”. Quello non è per niente amore benché normalmente sia considerato come il culmine dell’amore. Né cercando di far piacere alla persona amata né cercando di derivare soddisfazione da quella relazione, si può trovare un appagamento duraturo. In entrambi i casi c’è una divisione che, prima o poi, porta al conflitto.

Può esserci nell’amore una completa dimenticanza di sé, nella quale non esiste né l’io né il tu? Allora c’è la felicità totale; tu non cerchi di far piacere a me, né aspetti che io faccia piacere a te o che ti dia soddisfazione. L’io si scioglie, il tu si scioglie e l’amore resta. Questo è vero nella relazione umana e nell’amore divino. Non c’è assolutamente alcuna differenziazione. Ananyenai ‘va yogena māṇ dhyayānta upāsate: in quell’amore nasce la verità, nasce la liberazione, la pace, la felicità. Scopri che cosa vuol dire essere divino.

teṣām ahaṁ samuddhartā mṛtyusaṁsārasāgarāt
bhavāmi nacirāt pārtha mayy āveśitacetāsam (XII,7)

Questa esistenza nel mondo è descritta come mṛtyusaṁsārasāgarāt ‘oceano di nascita e morte’. Nel momento in cui trovi quell’amore, sei sollevato e redento da quest’oceano di nascita e morte. Il mondo e la vita in esso, di cui avevi avuto esperienza come tristezza senza fine, sofferenza non mitigata, all’improvviso cessa di essere tale. C’è felicità dovunque guardi, perché sei entrato in Dio, perché ti rendi conto che tutto ciò che succede, succede a causa di Dio. Se qualcuno ti abbraccia, quello è Dio; se qualcuno vuole ucciderti, quello anche è Dio. Perciò sei sollevato da quest’oceano di nascita e morte, da quest’oceano di dolore.

Ma, c’è un ma molto importante. Non sta a me saltare fuori da quest’oceano di dolore, non spetta a me ottenere l’illuminazione, non spetta a me ottenere la liberazione; non è il ‘me’ che può trovare la pace. Più il l’ego si sforza, meno pace, amore, illuminazione, gioia e armonia sentirà.

L’unica cosa che il me, l’ego può fare è realizzare la sua impotenza e offrirsi in umile resa a quell’Essere onnipotente - quello può essere fatto e deve essere fatto (non dire che anche quello dev’essere fatto da Dio). Puoi esaminare la vita e renderti conto che essa è piena di sofferenza; puoi cercare di tirartene fuori e poi renderti conto che non puoi, che è impossibile; qualunque cosa fai diventa un legame in più, un problema in più. Ogni soluzione che la tua mente produce per una difficoltà, diventa un problema peggiore. Quando ti rendi conto veramente di questo, ti arrendi totalmente - Signore, io non so che cos’è. Sia fatta la tua volontà.

Allora – bhavāmi nacirāt pārtha mayy āveśitacetasām - quando essi si sono così offerti a Me - dice il Signore - io li sollevo immediatamente da quest’oceano di dolore.

Non prima di allora; fino a quando tu senti che puoi risolvere da te il tuo problema, Dio dirà
 “Va bene, prova ancora un po’, non c’è alcun pericolo. Vuoi nuotare? Nuota, continua a provare”.
Quando tu dici sinceramente: “No, non è possibile!”, solo allora Lui dice: “Su, vieni, ti tiro fuori io” - Istantaneamente!


V

LA RESA


Come mi arrendo a Dio?

mayy eva mana ādhatsva mayi buddhiṁ niveśaya
nivasiṣyasi mayy eva ata ūrdhvaṁ na saṁśayaḥ XII,8

Qui in questo verso alcuni dettagli sono messi in evidenza. Mayy eva mana ādhatsva. “Poni la tua mente in Me.” Questo vuol dire, lascia che la tua mente affoghi in Lui, in modo tale che, a qualunque cosa la mente pensi, in qualunque direzione essa fluisca, si renda conto che tutto è Dio e soltanto Dio.

In tale mente è possibile un pensiero cattivo? E’ possibile che alcuni pensieri da qualcun altro siano chiamati cattivi, ma nel caso di questo devoto non c’è alcun pensiero cattivo: la sua mente è stata offerta completamente a Dio. Solo se capiamo questo, possiamo comprendere il comportamento strano e misterioso dei profeti in ogni parte del mondo. Alcuni si sono comportati violentemente, altri hanno benedetto o maledetto e hanno fatto ogni sorta di cose. Perché? Essi non avevano una mente propria. La loro mente era stata offerta a Dio e ciò che doveva avvenire avvenne attraverso di loro.

Vi do un esempio strano e divertente. Questa storia è riportata proprio all’inizio della scrittura chiamata Mahabharata. Un saggio spirituale stava camminando lungo la sponda di un fiume, quando all’improvviso ebbe una rivelazione: “Se io posso concepire un figlio in questo momento, questi diventerà il più grande tra i saggi”. Come può un asceta che vaga da solo avere un figlio ‘in questo momento’? Si guardò intorno; ad una certa distanza c’era una bambina di sei anni, figlia di un pescatore. La chiamò: “Vieni, vieni, vieni. Subito! Voglio darti un bambino”. La bambina disse: “Io? Tu sembri un sant’uomo, un saggio mentre io sono figlia di un pescatore, sono maleodorante - e poi ho solo sei anni”. Ma lui disse: “Non parlare! Dobbiamo sbrigarci, il tempo sta passando! Questo è un momento speciale!”.
La scrittura dice che istantaneamente la trasformò in una giovane donna, mandò via tutto il cattivo odore da lei e il suo profumo fu fragrante - e le diede un bambino.

Che razza di moralità è questa? Posso fare anch’io così? Sì, se sai qual è la volontà di Dio! La volontà di Dio la saprai quando non hai una mente tua propria, quando la mente è stata completamente offerta a Dio. Allora la volontà di Dio funziona attraverso la tua mente. Non è più la tua mente, è la sua.
Mayy eva mana ādhatsva mayi buddhiṁ niveśaya. Buddhi qui rappresenta il principio che prende una decisione; la mente vede due alternative e qualcosa dentro di te decide: “Questa è l’alternativa migliore.” Che cos’è che decide? Puoi chiamarla la tua coscienza o come vuoi. Quello è il giudice interiore, per così dire; per quanto facciamo mostra di non giudicare, ci rendiamo conto che anche in quello c’è un giudizio: “Io non giudico nessuno, sono così santo, così meraviglioso; seguo Gesù Cristo al cento per cento, non sono io ma è lui che giudica”. Questo stesso è un giudizio! Hai giudicato te come ‘super’ e l’altro come uno non tanto ‘super’.

Qualunque cosa fai, se osservi questa buddhi che misura, discrimina e decide, ti accorgi che è sempre portata a dare qualche tipo di giudizio. Possiamo offrire anche questa a Dio? Sapendo onestamente e sinceramente: “Signore, io non sono il giudice, non so proprio come comportarmi, non so cos’è giusto, non so cos’è sbagliato”.
Un verso nel secondo capitolo della Bhagavad Gita, messo nella bocca di Arjuna dice:
“Io non so proprio nulla, Signore, ti prego istruiscimi” II,7.
La stessa stupenda verità è rivelata da Gesù, quando nell’orto degli ulivi pregò:
“Padre mio, se è possibile, allontana da me questo calice” - questo lo disse il giudizio, la buddhi - poi aggiunse subito:
“... non la mia volontà, ma la Tua sia fatta” Mt. 26,39.
Siamo in grado anche noi di dire una cosa del genere in tutta onestà e sincerità? Allora la Sua volontà è fatta.

La sua volontà è fatta ogni momento ma, finché questa realizzazione non sorge, c’è uno stato di confusione dentro di noi; confusione prima dell’azione, durante l’azione, e anche dopo l’azione; che l’azione fatta sia giusta o sbagliata. E’ possibile in tutta onestà, offrire anche questa mente confusa a Lui? Non per evadere da una responsabilità, ma perché hai visto l’impotenza della mente umana e dell’intelligenza umana: le hai esercitate fino a giungere alla conclusione finale e definitiva che l’intelletto umano è incapace - è allora che questa resa è reale, onesta e sincera.

atha cittaṁ samādhātuṁ na śaknoṣi mayi sthiram
abhyāsayogena tato mām icchā ‘ptuṁ dhanaṁjaya XII,9

Kṛṣṇa dice: Finché siamo seduti qui, sembra essere giusto, ma appena andiamo via e ci confrontiamo con le situazioni reali della vita - allora sembra essere un po’ difficile. Appena usciamo, tutto sembra difficile, pare che non sia più possibile. Che succede allora? Prova ancora, ancora, ancora - vuol dire che ogni volta non ti sei veramente arreso, ma sei passato solo attraverso i gesti della resa, dicendo a te stesso “Signore, io mi arrendo a Te”. Un minuto dopo cominci a fare qualche altra cosa: “Io mi sono arreso a Dio ... Kira, hai abbastanza benzina in macchina?” Mi sono rimesso nelle mani di Dio - ma mi chiedo se lei ha la benzina per riportarmi a casa! Quindi c’è una vita di contraddizioni. “Ma - dice Kṛṣṇa, il supremo ottimista - anche questo ha la sua utilità”.

 C’è una bella storia che illustra l’utilità anche di questa resa non reale.

C’era una volta un ladro che aveva escogitato un piano per rubare nel palazzo del rajah. Aveva scoperto dov’era la cassaforte e sapeva che la chiave era vicino al letto del re. Una notte si era insinuato nel palazzo, molto cautamente senza far rumore ed era giunto fino al corridoio che si trovava adiacente alla camera reale ma d’un tratto sentì una voce e rimase lì impalato. Udì la regina che diceva al re:
“Mio Signore, ho appena fatto un sogno meraviglioso: un angelo mi è apparso e mi ha parlato dicendo:
‘Mia cara regina, lo so che tu sei preoccupata per il matrimonio di tua figlia, che ha diciotto anni ed è tempo che si sposi. C’è un solo uomo degno di essere lo sposo. Non devi avere alcun dubbio, ma fare esattamente quello che ora io ti dico. Sveglia tuo marito e digli che deve lasciare il palazzo alle tre e mezza stamattina (era circa mezzanotte) e andare in direzione Est per circa due miglia. Lì, sotto un grande pioppo troverà uno yogi coperto solo da una fascia intorno ai fianchi, seduto in meditazione. Quello è l’uomo degno di essere vostro genero. Non discutete, ma fate in modo che ciò sia reso possibile: non accettate una sua risposta negativa’”.

Avendo sentito questo, il ladro uscì dal palazzo, corse in quella direzione e si sedette sotto un grande pioppo. Verso le quattro e mezza sentì il fruscio delle foglie; sapeva che era il re e si tirò su con la schiena ben dritta (perché stava meditando, era uno yogi!). Il re s’avvicinò e aspettò per un pezzo. Lo ‘yogi’ non apriva gli occhi. Allora il re gli pose delicatamente una ghirlanda intorno al collo. Lo ‘yogi’ sentì un brivido di freddo (ma, non importa bisogna sopportare certe cose) e dopo un’altra decina di minuti aprì gli occhi. “Om... Chi siete? Avete le sembianze di un re”.

Il re pensò “Ah! E’ uno yogi supremo, sa che sono un re”. S’inchinò, prese i suoi piedi e disse: “Maharaj, la prego venga al palazzo”.

“Oh, noi siamo asceti, non entriamo nelle case, figuriamoci nei palazzi!” Il re supplicò piangendo “La prego, non me ne andrò da qui, non lascerò i suoi piedi”. “Oh, capisco, tale è la volontà di Dio. Va bene, va bene, verrò”.

Andò al palazzo e lì fu posto sul trono. Ad ogni nuova proposta protestava, protestava - poi cedendo: “Va bene, questa è la volontà di Dio”. Poi vennero anche la regina e la principessa e tutti e tre cominciarono a venerare i suoi piedi.

Lui disse: “Oh, non voglio essere toccato da questa donna! Om Narayana!”
Allora il re prese uno dei suoi piedi e la regina prese l’altro e cominciarono a piangere e lacrimare.
Lui chiese: “Che cosa succede?”
E il re rispose - Abbiamo una richiesta, una preghiera di un’umile sottomissione: questa è nostra figlia, lei deve sposar... -
“Sposarla? Oh! Questo è terribile, terribile, terribile! Io devo alzarmi e andare via”.
Presero bene i suoi piedi (non ce n’era bisogno) e lo trattennero lì. Ancora una volta il ladro guardò in alto:
“Ah, vedo, questa è la volontà di Dio, ‘Hari Om tat sat’. Sia fatta la tua volontà. Non la mia volontà Signore, ma la tua!  Va bene.”

Oh, come furono felici. Dei servi gli portarono dei doni e lo condussero nella sua camera, dove fu lasciato solo. Subito indossò tutti gli abiti regali, e i gioielli; si guardò nello specchio: risplendeva, era magnifico! Non c’era nessuno in camera con lui, perciò parlava tra sé e sé:
“Guarda come sono stato bravo! Volevo rubare qualche milioncino al re ma ora ho tutto il regno nelle mie mani!”
Continuava a guardare estasiato il suo riflesso nello specchio. Si faceva l’occhiolino...
“Dio mio! Se solo fingendo di essere uno yogi per due ore ho ottenuto tutto questo, cosa non otterrei se diventassi realmente uno yogi?”
Si strappò gli abiti di dosso, saltò dalla finestra e corse via.

La morale: anche se fai solo finta di essere uno yogi, di tanto in tanto, anche quello è di grande utilità.

Abhyāsayogena tato mām icchā ‘ptuṁ dhanaṁjaya. Continua a ripetere “Signore sia fatta la tua volontà, sia fatta la tua volontà, sia fatta la tua volontà”, continua, continua; uno di questi giorni scoprirai la magia. Abhyāsa vuol dire pratica costante e routine, significa anche ripetizione; anche se dovesse essere meccanica, dei nomi di Dio, e lo studio, persino meccanico, delle scritture. Non lasciare che la mente dica: “A che serve sedermi abitudinariamente a meditare? La mia mente non è lì, mi distraggo”. Va bene, non sta lì oggi, domani o per dieci giorni; non preoccuparti. Dieci mesi, non preoccuparti, continua: uno di questi giorni avrai l’esperienza.

Questo riguarda anche le relazioni umane: anche se l’altra persona non ti piace, fai finta di amarla, fai finta che si tratti di un tuo amico. Insisti, insisti; continuate a chiamarvi ‘caro’, ‘cara’. Forse ora è solo una parola, ma uno di questi giorni può entrarci anche lo spirito. E’ meglio fare tutte queste cose, anche se senza significato che tralasciarle. Se le abbandoni, resti con niente - né la forma né lo spirito. Se ti riesce possibile mantenere la forma, uno di questi giorni può svegliarsi in te il bisogno di riempirla con lo spirito.

abhyāsayogena tato mām icchā ‘ptuṁ dhanaṁjaya XII,9
abhyāse ’py asamartho ’simatkarmaparamo bhava
madartham apikarmāṇi kurvan siddhim avāpsyasi XII,10

“Per mezzo dello yoga della pratica costante impegnati a cercare di raggiungermi”.
Se sei troppo occupato e non riesci a fare nemmeno questo, ripeti mentalmente a te stesso:
“Tutto quello che sto facendo lo sto facendo per amore di Dio”.  Forse sarà solo una formula, ma anche in questa maniera, uno di questi giorni può risvegliarsi in te il ricordo costante e poi la pratica costante del pensare a Dio. Resta ancora l’idea ‘io faccio tutto questo’; l’ego è ancora molto forte. Io faccio tutto questo, ma per amore di Dio, per far piacere a Dio. Prima o poi ti renderai conto che quell’atteggiamento è inadeguato, insufficiente.

athai tad apy aśakto ‘si kartuṁ madyogam āśritaḥ
sarvakarmaphalatyāgaṁ tatuḥ kuru yatātmavān XII,11

Se non riesci a fare neanche questo, allora fai quello che ti pare con tutta la tua vanità e il tuo egoismo, ma abbandona il desiderio di un compenso per le tue azioni -  tyāgāc chāntir anantaram - immediatamente hai una grande esperienza di pace. Questo è puro e semplice senso comune. Se annoti in un diario tutto quello che fai oggi, l’intenzione con la quale lo fai e il risultato, puoi scoprire qualcosa di disgustosamente bello: che nella maggior parte dei casi quello che è successo è completamente diverso da quello che era tua intenzione che fosse, anche per quanto riguarda le preghiere.

Se tu avessi annotato il numero delle volte che hai pregato per qualcosa, e le poche volte che queste preghiere sono state veramente ascoltate, saresti disgustato dal pregare! Non ti sto chiedendo di non pregare, ma quando ti accorgi di questo, la tua preghiera assumerà una forma molto diversa. Pregherai perché vuoi pregare, non perché vuoi ottenere qualcosa o evitare qualcos’altro. Il più delle volte le nostre preghiere restano inesaudite e, quelle poche volte che lo sembrano, sono probabilmente accidentali.
Per esempio, se vai in un ospedale, metti della cenere in una mano, fai una preghiera e poi spargi un po’ di quella cenere sulla fronte di cento pazienti, promettendo loro che il giorno dopo saranno guariti - almeno dieci lo saranno. Questo è solo accidentale, non ha niente a che fare con la tua preghiera o con la cenere!

La vera preghiera è una cosa diversa, una cosa molto bella. E’ un’espressione del nostro amore verso Dio, senza chiedere nulla. Per meglio illustrare questo, c’è un racconto attribuito a Sri Ramakrishna, un altro grande santo dell’India, vissuto circa cento anni or sono. Sono sicuro che questo racconto lo ricorderete per sempre.

Un ragazzo era vissuto, sin da bambino, in un monastero di clausura e, da sempre aveva solo visto alcuni compagni maschi. Quando aveva appena quindici anni, il monaco anziano, che giornalmente faceva la questua, morì e il giovane dovette uscire lui stesso a chiedere del cibo in elemosina.

Si avventurò nel villaggio con una ciotola in mano e si fermò davanti alla prima casa (si trattava di uno di quei distretti in India dove le ragazze nubili si coprono solo dai fianchi in giù). Una ragazza di tredici o quattordici anni si avvicinò alla porta per dargli del cibo; dietro di lei era la madre. Questo giovane guardò la ragazza e disse alla madre:
“Anch’io avevo questo problema quando il mio maestro viveva nel monastero; ogni estate avevo dei grossi foruncoli; il mio maestro schiacciava le foglie di una certa pianta, le applicava sui foruncoli e questi scomparivano. Questo ragazzo ha un paio di foruncoli, è bene prendere quelle foglie e applicarle!”
La donna sapeva che il giovane era troppo innocente e disse:
“Figliolo, quelli non sono foruncoli”.
“Allora cosa sono?” - chiese il giovane.
“Lei è una ragazza e quelli sono ‘poppatoi’ che Dio ha provvisto per eventuali bambini che lei potrà avere tra qualche anno”.
Il ragazzo restò a guardare meravigliato, poi esclamò:
“Lei mi sta dicendo che Dio è così grande da provvedere sostentamento per bambini che forse nasceranno dopo tanti anni? E io devo andare in giro a chiedere del cibo in elemosina?  ... Mille grazie!” – e s’allontanò.

Quando riconosci che quello di cui hai bisogno è stato già provveduto molto prima che il bisogno si faccia sentire, allora qualcosa sorge nel tuo cuore, che potrebbe essere chiamata preghiera ma non è chiedere qualcosa. Non domando niente - perché devo chiedere? Questa cosa di cui ho bisogno è già stata creata. Semplicemente dici:
“Oh, Dio! Ti amo!” - o forse neanche ‘ti amo’ ma semplicemente “Oh, Dio!”.
Quella è preghiera.




VI

LA RICERCA DELLA VERITÀ’

Gli ultimi otto versi del Dodicesimo Capitolo sono considerati così importanti da essere esaltati nella mente degli studenti della Bhagavad Gita e in particolare dei devoti, tanto che vengono da loro chiamati amṛṭastakaṁ - gli otto versi immortali che conferiscono l’immortalità. Sono versi molto facili da leggere e da capire; sono privi di mistificazione o complicazione e descrivono la natura e le caratteristiche di uno che ama Dio ed è amato da Dio.
“Questo è il mio devoto e io lo amo” è il ritornello di ogni verso.

Si leggono descrizioni di uomini spirituali e biografie di grandi uomini, perché si vuol diventare come loro, altrimenti non c’è senso nel leggerle. Come diventare come Swami Sivananda, per esempio? O come Baba Muktananda? Ma noi ci limitiamo a leggere la loro biografia, a immaginare di essere come loro e a fare quello che i libri dicono che lui fece.

Alcuni anni fa, fu pubblicata una foto di Baba Muktananda seduto in una particolare posizione. Un giovane voleva farsi conoscere come un siddha (un realizzato), e cosa fece? Si fece fotografare nella stessa posizione e pubblicò la foto. Se fosse così semplice, tutti diventerebbero dei siddha! Voi praticate le posizioni di yoga - lo stiramento del gatto, lo stiramento del cane - ma non diventate cani e gatti. Almeno si spera!
Può essere, allora che imiti gli atteggiamenti di un uomo spirituale, ma non diventi un uomo spirituale; puoi riprodurre le sue azioni, ed è possibile che diventerai un’imitazione: in questi giorni in cui le imitazioni dei diamanti brillano ancor più di quelli veri, è possibile che attrarrai anche molta attenzione. Vi racconto una storia divertente:

Un guru stava dicendo al suo discepolo:
“Di questi tempi la cosa reale non è valorizzata, solo le imitazioni lo sono”.
Il discepolo non la pensava allo stesso modo:
“No, signore. Lei è una persona illuminata e, dovunque v,a è apprezzato. Lei è venerato e adorato, non le imitazioni dei santi”. Il sant’uomo non si mise a discutere.

I due vagavano di villaggio in villaggio, e un giorno in uno di questi videro una tendone. Quando si avvicinarono videro un cartello al suo ingresso che annunciava:
“Venite a vedere un uomo che grugnisce come un maiale. Ingresso 20 centesimi”
Il guru disse: “Compra i biglietti ed entriamo”.
Entrarono entrambi e, appena la tenda fu piena - vi trovarono posto una cinquantina di persone - l’entrata fu chiusa.  Un giovane entrò dalla parte opposta e salì sul palco. Per un paio di minuti quel giovane grugnì proprio come un maiale. Tutti batterono le mani. Fantastico, fantastico!

Il guru e il discepolo tornarono il giorno dopo, alla fine dello spettacolo, ma prima che la tenda fosse tolta. Il guru andò dal proprietario della tenda e ne chiese l’uso per un paio di giorni, quindi cambiò il cartello:
“Il Grugnito del Maiale - la Verità. Ingresso 20 centesimi.”
Il giorno dopo alcuni giovani si raccolsero davanti alla tenda. Sei di essi pagarono venti centesimi ed entrarono per vedere se valeva la pena far entrare anche gli altri. Il sant’uomo entrò portando con sé un maiale. Salì sul palco, tirò un po’ la coda al maiale e questo grugnì. Poi disse: “Signore e signori, questa è la verità” e andò via. Le sei persone uscirono e dissero:
“Non è niente - solo un maiale che grugnisce”.
Non vi furono altri clienti.

Il guru guardò il discepolo e disse:
“Capisci ora? Quando un uomo grugnisce come un maiale, fa spettacolo. Quando un maiale grugnisce, nell’unico modo in cui può grugnire, non è apprezzato. Si tratta della realtà, della verità, ma non la si apprezza”.
Se vuoi diventare come un santo, probabilmente attrarrai una grande folla, ma quella non è la realtà, non è la verità.

Non possiamo studiare la vita e la descrizione di questi grandi uomini e applicarle su di noi come dei cosmetici. La maggior parte della gente fa proprio questo, legge dei libri e poi applica l’insegnamento - e si pensa di essere diventati santi - ma non lo si è affatto. La crescita è dall’interno verso l’esterno. Una cosa è spargere del colore sulle tue guance, ben altra cosa è arrossire (quando arrossisci, è bello). Inoltre quando questi modi di fare sono applicati come si applicano dei cosmetici, c’è sempre il pericolo che siano lavati via. Esattamente allo stesso modo, se imiti le azioni di un sant’uomo, la finzione sarà scoperta alla minima provocazione o tentazione. Come facciamo?
A Singapore avevo un amico tedesco che era un monaco buddista. Fino a qualche anno fa, ogni volta che mi recavo a Singapore e c’era un incontro con il pubblico, anche lui sedeva con me sul palco. Se lo presentavo dicendo:
“Questo è un mio amico, è un buddista”, lui protestava.
“No io non sono un buddista, io voglio diventare un Buddha”. E diceva anche:
“Non essere un Cristiano, sii un Cristo. Almeno aspira ad esserlo”.
Per riuscire a fare questo devi percorrere la strada che loro hanno percorso. Percorrere la strada di Mosè, Gesù, Buddha, Baba Muktananda o Swami Sivananda non è facile. Fingere di essere come loro può essere facile ma non sarà di nessuna utilità.

Qual è la visione, quali sono gli ideali che li guidarono lungo il sentiero che percorsero? Puoi tu acquisire quella visione? Non c’è bisogno che tu sia un principe e rinunci al trono, come fece il Buddha, né devi andare in un luogo di culto e cacciare tutti fuori, o lasciarti crocifiggere, per diventare un Cristo. Qual era la loro visione interiore? Qual è lo spirito che li mosse nella loro vita?  Vivendo in quello spirito diventerai un Cristo o Buddha.

Quando leggi questi otto versi che sono descrittivi di uno che ama Dio e che è amato da Dio, per favore ricordati che questa descrizione non è una sorta di cosmetico che puoi applicare su di te ma questa segue la descrizione precedente di che cos’è amare Dio. Se hai imparato ad amare Dio secondo gli insegnamenti nei quali ci siamo già addentrati, allora queste qualità saranno riscontrate in te. Queste sono le caratteristiche, le note distintive che si troveranno in un devoto. Al massimo puoi usarle come metro. Se queste qualità sono lì in te, è possibile che stai crescendo nell’amore divino. Se non si trovano in te, allora proprio non ci sei.

adveṣṭa sarvabhūtānām maitraḥ karuṇa eva ca
nirmamo nirahaṁkāraḥ samaduḥkhasukhaḥ kṣamī  XII,13

Già le due prime parole - adveṣṭa sarvabhūtānām - danno la chiave.
“Nel suo cuore non c’è alcun odio verso qualunque essere”.
Basterebbe solo questa qualità. E’ possibile che io sradichi l’odio in maniera completa e totale? Odio vuol dire molte cose - invidia, gelosia, voler male, anche aver paura. Può quest’odio essere completamente sradicato dal proprio cuore? Allora (e solo allora) in quel cuore si manifesterà l’amore, si manifesterà Dio. Adveṣṭa sarvabhūtānām maitraḥ karuṇa eva ca. “Lui è amichevole e compassionevole verso tutti”.

Qui c’è una cosa interessante; negli Yoga Sutra e anche altrove è scritto che lo yogi (o un serio studente di yoga) avrebbe quattro qualità nelle sue relazioni con gli altri esseri umani: maiṭri, karuṅā, muḍhiṭā, upekṣā.  L’usuale spiegazione è che maiṭri è amicizia verso gli uguali, karuṅā è amorevolezza verso quelli che sono inferiori, muḍhiṭā è gioia verso quelli che sono superiori e upekṣā è indifferenza verso i cattivi.

Nel Dodicesimo Capitolo della Bhagavad Gita solo due qualità sono citate - maiṭri e karuṅā; muḍhiṭā non è citata, perché come devoto non ti paragoni a nessun altro al mondo e perciò non c’è bisogno che tu sia particolarmente felice che Tal de’ Tali sia superiore a te. Consideri tutti come Dio, questo basta. Ancora più interessante è che upekṣā (essere indifferente verso il cattivo) è completamente eliminato, perché agli occhi del saggio nessuno è cattivo. Lui vede Dio in tutti (anche se, agli occhi di altri, quella persona può essere un assassino), sentendo: “E’ Dio che sta facendo questo, io non so perché lo fa”.

Sono sicuro che mille domande si accavallino nella vostra mente in questo momento:
“Che succede se agiamo tutti in questa maniera? I ladri e i delinquenti non avranno via libera?” Non sta a voi preoccuparvi di questo. Io suggerisco due domande contrarie a questa (si tratta solo di argomenti di discussione, niente assolutamente a che vedere con l’atteggiamento di un devoto).

Prima: potete dire onestamente che i riformatori religiosi e sociali che hanno assunto come loro dovere quello di sradicare il male o la cattiveria dalla terra, hanno dato fine al male in questo mondo? Se vai in giro per il mondo e visiti persino quei posti dove Buddha, Kṛṣṇa, Gesù, Rāma o Mosè vissero, e vedi quello che vi succede, ti chiederai:
“E’ questa l’umanità, per la quale questi grandi uomini vissero, lottarono e morirono?”

Il secondo punto è preso in prestito da un altro grande santo dell’India, chiamato Prabhudatta Brahmachari, il quale aveva diversi ashram (luoghi per la pratica spirituale) nell’India settentrionale. Un giorno sentì il bisogno di scrivere e di doverlo fare in completo isolamento, in un luogo dove non sarebbe stato disturbato, perciò si comprò una casa-barca e l’ancorò nel mezzo del fiume Gange. Qui poteva portare avanti indisturbato il suo lavoro, mentre gli ashram erano guidati da altri.

Un giorno uno di questi luogotenenti venne a vederlo e gli disse:
“Sa, il sig. X che è a capo dell’ashram in tale posto sta rubando, imbrogliando e facendo ogni sorta d’intrigo!”
Questo sant’uomo ascoltò tutto, sorrise... e non rispose. L’uomo gli chiese:
“Che cosa farete?” E lui rispose:
“Niente! Dio non mi ha nominato magistrato. Non è compito mio, è compito Suo”.

Se sei un poliziotto può essere compito tuo prendere un ladro e metterlo dentro, senza esserne emotivamente coinvolto ma, in caso contrario, per te tutti sono manifestazioni di Dio. Non c’è bisogno di giudicare nessuno. ‘Non giudicare’   è un’affermazione definitiva, perché tu non sei Dio, tu non sai perché il sig. X fa quello che sta facendo. E’ Dio stesso che ha indossato queste diverse maschere, giocando ruoli diversi in quest’universo.

Quando quest’atteggiamento, o meglio questa visione sorge in te, c’è un potente cambiamento interiore. Vedi il mondo intero sotto una luce diversa; non ti va di giudicare né di condannare alcuno. Non ti ritieni all’altezza di accusare nessuno, e quindi non sorge neanche il bisogno di perdonare qualcuno. Nirmamo nirahaṁkāraḥ samaduḥkhasukhaḥ kṣamī. “Egli è totalmente privo di egoismo e di senso dell’ego e non considera alcuna cosa come ‘questo è mio’”.

Se prestate attenzione a questa frase, la troverete molto interessante. C’è certamente il sentimento che ‘io sono’ - questo è inconfutabile. E’ possibile che questo sentimento sia confuso con il corpo e la personalità, ma nessuno può negare che esso esista. In Sanscrito questo è conosciuto come ‘aham bhavana’. Dei grandi saggi come Rāmana Mahṛshi hanno messo in evidenza il fatto che, se quel sentimento è seguito fino alla sua sorgente, si scopre che non è la personalità individuale che lo fa sorgere, ma l’essere cosmico. L’espressione ‘io sono’ è basata su una certa verità o fatto (pur essendo probabile che ci sia della confusione a riguardo). Quando invece dico ‘questo è mio’ o ‘lei è mia’, è anche questo basato su fatto o è un errore totale?

‘Mio’ non è basato su alcuna verità. Niente è mio, neanche questo corpo. In una delle scritture c’è un avvertimento:
“Non credere che questo corpo sia tuo, c’è un gran numero di esseri che lo rivendicano”.
Un avvoltoio sta descrivendo dei cerchi nell’aria, sta aspettando e guardando:
“... Respira ancora; appena smette diventa carne per me”.
Se il corpo è da seppellire, i vermi e gli insetti della terra sono in attesa di un lauto banchetto, il corpo appartiene a loro - oppure al fuoco, o ai pesci del Gange. Neanche il corpo mi appartiene. Allora cosa mi appartiene? Cos’è mio? Nient’altro se non l’idea che qualcosa è mio. Lascia cadere quell’idea.

Se stai seriamente e sinceramente cercando la verità, alla luce di quella verità ti renderai conto che ‘nulla è mio’. Questa camicia è mia, ma se la do ad un amico, dopo due minuti diventa la sua camicia. Puoi usare la parola ‘mio’, basta che ti rendi conto che non è vero. E’ un’espressione conveniente e niente più. Quando chiami una persona ‘mia moglie’ è solo un aspetto temporaneo. Lei non era tua moglie un po’ di tempo fa, può non esserlo più, dopo un altro po’ di tempo. Benché, mentre viviamo in questo strano mondo, possiamo usare queste espressioni, è bene ricordarsi che in esse non c’è verità.

Un’altra meravigliosa caratteristica del devoto di Dio è detto che sia una mente serena, uno stato equilibrato della mente. E’ scritto e ripetuto più volte nella Bhagavad Gita che lo yogi, il devoto o il saggio non esulta quando gli succede qualcosa di bello e non entra in uno stato di profonda depressione quando gli accade qualcosa di spiacevole. Nel vostro caso, quando qualcosa di bello vi accade, quando qualcuno vi dà qualcosa siete eccitati.

Che cosa esattamente intendete quando dite:
“Lui ha dato questa cosa a me”?
Proprio in quell’evento c’è una terribile confusione. ‘Lui’ non ha dato a te, e non è il suo dare che ti rende felice o infelice. Se quello che lui dà o fa ti rende felice o infelice, sei uno schiavo - la tua felicità è illusoria, è nelle sue mani, perché lui può ritirare quel favore e tu sei di nuovo triste.

Che cos’è la felicità? Che cos’è l’infelicità? Che cos’è il piacere? Che cos’è il dolore? Chi determina tutto questo?
Ci sono delle reazioni neurologiche - una data reazione neurologica è considerata dolore ma neanche su questo possiamo fare affidamento al cento per cento. Se io do un pizzicotto a questa ragazza, lei sorride; se invece di me fosse il preside della scuola a darle un pizzicotto di rimprovero, lei sarebbe turbata! Un pizzico è un pizzico, la cosa è esattamente la stessa! Il corpo ha il suo particolare modo di reagire al dolore e al piacere neurologico, ma non c’è nulla chiamato piacere o dolore, eccetto nel dizionario della tua mente.

Lo yogi è in equilibrio nella felicità e nell’infelicità, ma non perché questo sia il suo ideale:
“Io sono uno yogi, perciò anche quando sono infelice, devo fingere di non esserlo!” - questa è ipocrisia. Ho visto un’onesta pubblicità in televisione su una marca di birra, che diceva:
“Bevila una volta e poi bevila ancora! La prima volta non ti piacerà, ti saprà di amaro: bevila una seconda volta e ti comincerà a piacere”.
Se era amara e disgustosa la prima volta, è amara e disgustosa anche la seconda! Ma poi, la pressione pubblicitaria è tale (inquinamento del cervello) che sei portato a sentire che è piacevole, altrimenti ti sentiresti diverso, escluso; per conformarti agli altri, anche se vorresti vomitarla, continui a dire che è buona.

Chi definisce cosa sia il piacere, il dolore, la felicità, l’infelicità? Se esamini sinceramente, ti rendi conto di un circolo vizioso: sei tu a decidere che questa è felicità e allora diventa felicità; sei tu a cercarla chiamandola felicità e, proprio perché la cerchi, la chiami felicità.

Chi percorre il sentiero della verità non ha assolutamente alcuna pazienza per tutto questo. Lui guarda sia attraverso la felicità che l’infelicità e li vede come dei meri concetti mentali; quando l’intelligenza interiore riconosce questa verità, la mente non è più agitata.


VII

BUSSA E TI SARA’ APERTO


samaḥ śatrau ca mitre ca tathā mānāpamānayoḥ
śitoṣnasukhaduḥkheṣu samaḥ saṅgavivarjitaḥ. XII-18

 Samaḥ śatrau ca mitre ca - “Egli è lo stesso verso l’amico e il nemico”.
C’è la bellissima espressione nella Bibbia: “Amate i vostri nemici” (Mt 5,44).
Io capisco cosa vuol dire ma non è letteralmente vero; non puoi amare il tuo nemico. Gesù intendeva: 
“Amate coloro che si considerano vostri nemici”. Questa è un’espressione più complicata, perciò disse semplicemente: “Amate i vostri nemici”. Se consideri qualcuno nemico, non puoi amarlo; l’hai già accusato, giudicato, condannato - non c’è amore.  Lui pensa di essere tuo nemico, ma questo non ha alcuna importanza per te; per quel che ti riguarda lui, è tanto una manifestazione di Dio quanto lo è il più grande santo e devoto di Dio. L’equanimità sorge da questa visione dell’Essere cosmico. Se quella visione non c’è, il mero fingere di sentirti in una maniera o nell’altra non farà certo di te un santo.
yasmān no ’dvijate loko lokān no ‘dvijate ca yah XII-15
“Colui che non ha paura di nessuno e del quale nessuno ha paura è mio devoto”.
Questa è un’espressione stupenda. Potresti essere uno yogi molto progredito e non avere paura di nessuno, ma come puoi fare in modo che nessuno abbia paura di te? Se hai quella visione cosmica, solo allora è possibile - alla tua stessa presenza ognuno si sente a suo agio.

Io vidi questo nel caso del mio guru Swami Sivananda. Nessuno aveva paura di lui. Vi darò un esempio straordinario e bellissimo. Una coppia, ambedue discepoli di Swami Sivananda, ebbe diverse figlie e poi un figlio maschio. E’ ovvio che il maschio cresceva viziato. In quella famiglia c’era la tradizione di radere i capelli al bambino quando aveva due o tre anni. Il padre e la madre volevano adempiere a questa cerimonia alla presenza di Swami Sivananda; era un rito. Dei fili colorati dovevano essere legati alle sue ciocche prima che fossero rasate.
Un pandit stava cercando di legare questi fili, ma era impossibile. Il bambino gridava e piangeva e tutta la gente intorno era un po’ preoccupata - se a questo bambino non si può neanche legare un filo ai capelli, come gli si potrà avvicinare il rasoio per raderli? Solo il padre era completamente calmo e disse
 “Aspettate che venga Swamiji, tutto andrà bene”.
Dopo un po’ venne Swami Sivananda e la madre gli portò il bambino. Swamiji era grande e grosso e aveva un gran pancione. Quando il bambino fu posto sul suo grembo, non fece altro che guardarlo. Il piccolo continuò a guardare il viso di Swami Sivananda mentre le sue mani giocavano sulla sua pancia. Fu incredibile come il barbiere poté facilmente radergli la testa in dieci minuti - il bambino era così calmo, silenzioso e pacifico, per dieci minuti non fiatò neanche, non ci fu nessun piagnucolio.

Spesso vedevo ragazzi e ragazze correre dalla strada all’ashram e chiedere:
“Swami! Che ore sono?”
Nessuno aveva paura di lui, nessuno aveva alcuna riserva alla sua presenza. Tutti potevano venire e parlare con lui, potevano ridere, potevano piangere, potevano fare quello che volevano. Era così bello. Lì, vedevi una persona di cui nessuno aveva paura, alla cui presenza nessuno si sentiva agitato. Non è facile: puoi fingere, ti puoi sedere e meditare per irradiare amicizia in tutte le direzioni, cosa che può essere molto utile, ma, dopo aver fatto tutto ciò, quando vieni fuori e vedi qualcuno che ti dà uno sguardo cattivo, tu sei turbato, quella persona è agitata, tutta l’armonia è scomparsa.

Questa qualità non può essere acquisita con l’autoipnosi o con il mesmerismo ma può solo sorgere a seguito della visione di Dio; e lo disse chiaramente Gesù:
“Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date per giunta” (Mt 6,36).
Tutte queste qualità vi seguiranno, emaneranno da voi in modo naturale. Non avete bisogno di acquisirle o di coltivarle - saranno lì; ammesso che voi cerchiate Dio e il suo amore. Solo quando ci comprendiamo l’un l’altro, quando riconosciamo Dio l’uno nell’altro, queste qualità sono possibili.

Io ho visto questo in alcune persone sante, e solo in loro, nel loro caso queste qualità sono prodotte senza sforzo: possono anche guardarti con un’espressione severa, e tu le ami! E’ una cosa strana; da dove venga la loro attrazione, non lo sappiamo. Come mai, nonostante tutto ciò, noi non abbiamo paura di loro, non lo sappiamo. A qualsiasi livello: conscio, subconscio o inconscio ci rendiamo conto che comunque si comportino, ci amano. Com’è possibile? Il maestro stesso potrebbe dirti: “Ora ti picchio!” e tu diresti “Sì, sì se vuoi, puoi picchiarmi ma ciò nonostante ti amerò e saprò che tu mi ami”. Non è qualcosa che la mente umana può capire, affermare e applicare.

Questa strada che ci conferisce le qualità o le caratteristiche descritte in questi otto versi sembra essere quella della realizzazione di Dio. Guardiamo un’altra caratteristica.

anapekṣaḥ śucir dakṣa udāsīno gatavyathaḥ
sarvārambhaparityāgī yo madbhaktaḥ sa me priyaḥ. XII-16

La seconda riga lascia un po’ perplessi, essa letteralmente vuol dire: “Uno che abbandona tutti gli intenti, tutte le imprese, tutti gli inizi”; cioè la persona che è totalmente dedicata a Dio non dà inizio ad alcuna impresa. Che cosa vuol dire?

 L’interpretazione suggerita da Rāmana Maharishi  è che lo yogi (o il saggio o il devoto) non dà inizio ad un’attività di sua propria iniziativa, ma sempre in risposta a quello che qualcun altro suggerisce. Questo è un punto di vista. Ma se tu fossi vissuto molto vicino a uno di questi grandi santi (mi riferisco in particolare a Swami Sivananda e a Baba Muktananda), ti saresti reso conto che essi sembrano aver dato il via a grandiose attività. E allora? Essi sanno direttamente che questo desiderio non sorge in ‘me’ ma in Dio. Quando si scopre che questa coscienza “Io sono” non è l’ego ma una cellula nel corpo cosmico di Dio, una scintilla chiamata ‘io’ in quella conflagrazione cosmica, allora, anche se può sembrare che tu stia dando inizio a un progetto, in realtà non è da te ma è da Dio che emana.
Non è qualcosa che la mente possa capire e che poi la personalità possa cercare di applicare - deve accadere. Come devoti, deve essere nostro impegno costante ricordare Dio, contemplare il divino in ogni momento: la contemplazione stessa agisce come luce che previene l’insorgere dell’ombra dell’egoismo. Fintanto che guardi la luce, l’ombra non può sorgere.

Questa è la ragione per cui le persone illuminate ridono dell’idea che ci sia qualcosa chiamata non-illuminazione e dell’idea di maya o illusione. Essi dicono: “Cosa vuoi dire per illusione? Non esiste”. Cosa intendi dicendo ‘le tenebre dell’ignoranza’? Puoi provare a una candelina che esista qualcosa chiamata oscurità? Ammettiamo che possa parlare a una candela e le dici:
“Candela, c’è buio nell’altra stanza”.
La candela ti chiede: “Che cos’è il buio? Fammi vedere”.
Appena entri nell’altra stanza con la candela in mano, l’oscurità è scomparsa. Per l’uomo illuminato, non c’è oscurità, per uno che ha la visione di Dio, non c’è altro che Dio.

Come ci comportiamo di fronte a quest’affermazione? Prima di tutto occorre avere della fede, non basta solo credere; la fede è qualcosa di differente, essa presuppone una certa esperienza. Puoi cominciare col credere, ma poi esamini quella credenza. Per esempio questi grandi uomini dicono che Dio dimora in tutto e in tutti. E’ vero? Mentre vai avanti, cominci ad avere esperienza della verità. All’inizio non è così chiaro, si tratta di esperienze offuscate ma da queste, anche se non sono tanto chiare, sorge la fede e sei pronto a procedere con maggiore confidenza - quella è fede, non come quel tipo di ‘fede religiosa’, che per la maggior parte di noi non è altro che un insieme di credenze. Poi gradualmente, per grazia di Dio, siamo condotti alla realizzazione diretta.

La realizzazione ultima di Dio è dono di Dio, non è nelle nostre possibilità ‘ottenerla’, ‘acquistarla’; solo Dio può realizzare Dio. Ma noi possiamo bussare (come disse Gesù) e sarà aperto. La chiave non è nelle nostre mani, ma abbiamo il diritto di bussare - finché non ci si rompono le nocche! Questo bussare corrisponde alle pratiche di devozione. Nelle pratiche devozionali vi sono alcuni fattori vitali che il mio guru Swami Sivananda evidenziò più di altre pratiche. Il più importante di tutti è il mantra, un nome: quando vogliamo attirare l’attenzione di un altro, lo chiamiamo per nome; esattamente allo stesso modo, chiamiamo Dio usando un nome, un mantra. Nella maggior parte dei mantra normalmente usati non c’è un supplicare, ma semplicemente un chiamare. Tutti i nostri bisogni sono già stati procurati da lui, quindi non abbiamo bisogno di chiedere niente. Abbiamo solo bisogno di chiamare Dio: “Oh Dio, oh Dio”.
Come facciamo a sapere che Dio ci ascolta? Non lo sappiamo! Nella Philokalia c’è una bellissima espressione. Un maestro dà una copia della sacra Bibbia a un discepolo analfabeta e gli dice:
“Figlio mio tienila sempre nella tua bisaccia e vicina al tuo corpo dovunque vai. Ti proteggerà contro il demonio”.
Il discepolo, perplesso: “Ma, signore, io non so leggere, non so neanche di che cosa tratta”.
E il maestro risponde: “Non importa; il diavolo sa che quella è la Bibbia e non ti si avvicinerà!”
In modo simile, tu non sai dov’è Dio o se ti ascolta o no, ma continui a ripetere il mantra: colui al quale il mantra appartiene sa che qualcuno lo sta chiamando e verrà. Un po’ di fede è necessaria. Quella fede sorgerà quando, come risultato di questa pratica, cominci di tanto in tanto ad avere qualche piccola esperienza. Quando quell’esperienza sorge ti rendi conto che Dio sta ascoltando. Allora continui con sempre maggiore intensità.

Swami Sivananda aveva un metodo molto semplice; questo consiste nel cominciare a ripetere il tuo mantra appena apri gli occhi la mattina in modo da mettere in moto questa corrente; poi, una piccola lavata e ti siedi a ripetere il mantra. Se vuoi, puoi usare un japa mala (rosario di  108 grani) e, se sei solo e vuoi farlo, puoi ripetere il mantra un pochino ad alta voce. Quando poi la mente è in sintonia con il mantra, non lo ripeti più in maniera udibile ma mentalmente e l’associ con il respiro. Ripetilo una volta quando inspiri e una quando espiri. Fa in modo che questo diventi un sottofondo del pensiero che continui per l’intera giornata. Anche quando sei al lavoro, ogni ora o due - con gli occhi chiusi o aperti - anche se solo per dieci secondi, ricollega la coscienza con il mantra.
Questa è la pratica più vitale e più importante; sembra essere tanto semplice, ma è di enorme efficacia. Dopo un po’ di tempo di pratica, questo mantra forma una corrente che continua durante il giorno e, sorprendentemente, durante la notte. Sai che qualcuno sta ripetendo il mantra anche mentre dorme se, svegliato all’improvviso, invece di dire: “Ehi, che succede?” dice: “Om namah sivaya, om namah sivaya”!

Swami Sivananda raccomandò anche un’altra pratica conosciuta col nome di vibhuti yoga (questo è descritto nel decimo e undicesimo capitolo della Bhagavad Gita). Qui impariamo a ricordare Dio quantunque e dovunque possibile, per far sì che la coscienza di Dio si allarghi in cerchi concentrici. Non immaginiamo di poter ottenere immediatamente la coscienza di Dio, ma cominciamo in un punto e lasciamo espandere questa coscienza di Dio in cerchi concentrici. In che maniera? Per esempio - questa è un’ottima pratica che riscontro in molti - quando passi davanti ad una chiesa ti fai il segno della croce e per un momento pensi a Dio. Allo stesso modo, fa sì che tutti i fenomeni straordinari ti ricordino di Dio - il sole, la luna, l’oceano, qualcosa di meraviglioso. Quando guardi il mare, ti ricordi, “l’infinito è Dio”; quando guardi il cielo ti ricordi, “l’infinito è Dio”; quando guardi il sole raggiante ti ricordi: “quella è una manifestazione di Dio”. Poi cominci a vedere Dio nelle persone che sono belle, simpatiche, allegre, gentili, generose, buone. Infine questa coscienza si espande ulteriormente a includere tutta l’umanità, poi tutti gli esseri viventi e così via.


Questi sono alcuni dei metodi per mezzo dei quali possiamo espandere la nostra consapevolezza di Dio. Nello stesso tempo, se siamo sinceri e seri, dobbiamo anche tenere accesa la fiamma dell’amore nei nostri cuori e assicurarci che, alla presenza di quella fiamma, nessun odio, gelosia, paura, ecc. possa entrare nel nostro cuore. Se pratichiamo questi semplici metodi, io sono sicuro che, per grazia di Dio, saremo condotti alla sua presenza cosmica.