Yoga Sutra II. 06 -09

II. 6 dŗg darśana śaktyor ekātmatevā ‘smitā

Nella coscienza cosmica tutte le attività avvengono. Così, per esempio, l’atto di vedere avviene: il potere della vista vede. Quando però, la coscienza frammentata dall’ombra dell’ignoranza, identifica se stessa come entità che vede, c’è il senso dell’ego.

Dŗg è chi vede, che è sempre indipendente; ovvero non esiste come entità, come realtà, come verità.
Darśana-śakti è il potere che permette alla vista o alla percezione di esistere. Chi vede non ha nulla a che fare con l’esperienza stessa, eppure, in qualche modo, ne resta coinvolto. L’esperienza è naturale, c’è dappertutto; gli occhi sono aperti e, facendo parte di un organismo vivente, non possono fare a meno di vedere qualcosa.
Gli occhi vedono, le orecchie odono, il naso odora, la lingua gusta, la pelle sente, la mente pensa, i polmoni respirano, lo stomaco digerisce e la vita vive – che tu voglia o meno. Appena le palpebre si separano, la visione avviene; quando le onde sonore entrano nelle orecchie, l’udito avviene. Cos’è che vede e ode? Il senso della vista vede, l’udito stesso ode. Quando i tuoi occhi sono aperti puoi smettere di vedere? No. Questo implica che il vedere è un fenomeno naturale, inerente alla luce. Perciò, non c’è niente chiamato “io”, sé, senso dell’ego qui; è semplicemente la vista che vede. Ogni evento ha termine nella maniera tanto spontanea e istantanea con cui ha avuto origine, non vi sono problemi.
In questa pura e semplice esperienza non c’è divisione, solo il senso della vista che si fonde in quel che è visto. Non c’è un’esperienza divisa, nessun senso dell’ego e c’è la stessa pace e gioia come nel sonno.
Mentre tutte queste cose avvengono, quando i poteri che sono inerenti in quella che chiamiamo natura si manifestano, da qualche parte in quell’intelligenza cosmica una nozione sorge: “Io vedo”. (Questo dev’essere sperimentato per essere compreso). Il momento in cui la divisione è sorta in questa pura esperienza, c’è il desiderio di avere esperienza. Quel desiderio di avere esperienza crea il senso dell’ego, è esso stesso il senso dell’ego. Invece di permettere all’esperienza di continuare ad essere sperimentata, l’io sorge: “Io sto avendo l’esperienza, io sto vedendo, io sto udendo”. Perciò quell’esperienza è trattata come un oggetto e l’io si eleva come soggetto, per averne esperienza: “Io vedo te”.
In quell’attimo, il pensiero che pensa ‘Io vedo te’, diventa uno spazio, e in quello spazio sorge un sentimento: “Ah, tu sei bello, mi piaci”: Questo vuol dire che l’energia, che momentaneamente diventa consapevole di te come oggetto, è attratta a fluire in quella direzione. Quando si tratta della pratica dello yoga, lo stesso sentimento si manifesta nel desiderio di realizzare Dio, di vedere Dio, di avere un’esperienza spirituale. Dovunque vai e qualunque cosa fai, l’io è lì e, a causa di questo processo, s’imprime sempre più in profondità.
I teologi in ogni parte del mondo proclamano a gran voce che Dio è onnipresente - onnipresente vuol dire dappertutto. Essendo Dio onnipresente, cosa si pone tra me e Dio? Me. Non può esserci altro e se è così, ci ritroviamo punto a capo: “Cos’è me? Cos’è questo io?” L’io, il senso dell’ego, è l’altra faccia della medaglia chiamata “Io non so”, ed essendo questo tanto lontano dalla nostra esperienza quotidiana l’abbiamo trattato come l’autore dell’esperienza. “Io” vedo, “io” parlo, “io” sento, “io” siedo. Abbiamo preso quell’io per scontato, e da lì, fluiscono tutte le nostre esperienze ed espressioni. “Cosa faccio adesso?” Anche in quella domanda “io” sono è preso per scontato e il “fare” diventa così importante; dunque l’io è lì, accettato come una solida realtà, non è mai messo in dubbio.
Per questo, quando si tratta di quella che voi chiamate meditazione, un errore mostruoso è commesso: essendo l’io preso per scontato, è questo “io” che medita. Perciò, “Io medito su me stesso. Come si può fare una cosa simile? Nei circhi, ho visto fare tante fantastiche acrobazie, che non avrei mai creduto possibili, ma non ho mai visto finora qualcuno che riesce a stare in piedi sulle proprie spalle. Se non si può stare in piedi sulle proprie spalle, come si può meditare su se stessi? Che significa? Eppure dev’essere fatto. Di conseguenza che facciamo? Impariamo a riconoscere le espressioni o le estensioni dell’ego; prima c’impossessiamo di queste espressioni ed estensioni dell’ego e da lì procediamo, saggiando lentamente la strada.

II. 7            sukhā anuśayī rāgah
L’attrazione (o condizionamento o coloritura mentale) segue e si basa sull’erronea valutazione di un oggetto o di un’esperienza come piacere[1]. A causa della coloritura mentale, qualcosa appare attraente.

II. 8            duhkhā anuśayī dveşa
Similmente, la repulsione (che è un’altra fase dell’attrazione) segue e risiede nell’erronea classificazione di un oggetto o di un’esperienza come fonte di dolore[2]. D’altro canto, quelle che la mente umana nell’ignoranza considera attrazione e repulsione, esistono nella natura e sono inerenti, invariabili e costanti nella manifestazione dell’intelligenza cosmica (p.es. la polarità magnetica). Nella natura, però, non c’è né la nube dell’ignoranza né il suo conseguente senso dell’ego: l’attrazione e la repulsione della natura sono di qualità interamente differente da quelle della psiche umana.

[1] ‘Attrazione’ è anche un altro termine per esprimere il piacere.
[2] ‘Repulsione’ è un altro termine per esprimere il dolore.

L’entità che vede divide immediatamente in due l’intero universo dell’esperienza: qualcosa che ti piace e qualcosa che non ti piace. Qualcosa che ti piace la chiami piacere, qualcosa che non ti piace la chiami dolore. Cerchi il piacere e, quando non l’ottieni come spesso succede, sei deluso. T’infastidisce il dolore senza renderti conto che è diventato dolore solo perché non ti piace; quando poi t’insegue soffri di nuovo. In un caso vuoi inseguirlo, nell’altro allontanartene. Qui correre è comune. E’ bene capire che questi sono differenti solo verbalmente, non nella sostanza.
Nessuno al mondo può onestamente e razionalmente spiegare perché una cosa è considerata piacere e un’altra dolore. Patanjali dice che questa valutazione sorge dall’ignoranza. Le due parole, che significano piacere e dolore in sanscrito, sono sukhā e duhkhā e si può vedere che sono quasi identiche, come felicità e infelicità sono quasi identiche. L’infelicità e una mera estensione della felicità: qualunque gratificazione tu cerchi di estendere, diventa infelicità. Se la lasci accadere è felicità, se cerchi di estenderla diventa infelicità.
C’è una bella teoria secondo cui l’ignoranza è beatitudine, ma secondo Patanjali è impossibile: “Finché sei nell’ignoranza ti ritrovi a girare in questa giostra e, se hai esperienza di felicità o piacere in questa vita, è solo perché, per il momento, è così che hai deciso di chiamarlo”. Questa è un’esposizione importante: non è piacere di per sé, ma è così che hai deciso di chiamarlo! Perciò, per il momento ti dà piacere. Cos’è che temporaneamente lo fa essere piacere? Solo la tua ignoranza della sua natura e della tua vera identità.
Una volta che l'ego, asmita è venuto in esistenza, esso cerca costantemente il piacere e, poiché lo chiami piacere ne vuoi una ripetizione, e volerne la ripetizione crea un desiderio (che è già sofferenza) e se non puoi averlo quando vuoi, provi dolore.
Il corso della vita non tiene assolutamente conto di ciò che voi ed io desideriamo avere o evitare, di ciò che ci piace o non ci piace; ma dai desideri e dalle avversioni produce la sua infelicità. Anche ciò che è considerato piacere o felicità in questa vita è soggetto a cambiamento. Qualunque felicità cercate, una volta ottenuta vi lascia indifferenti e, a parte questo, anche mentre ti stai dilettando in quella felicità, sorge il sospetto che cambierà, che non durerà.
La costante tendenza alla ricerca del piacere dell’ego ama evitare tutte le esperienze spiacevoli, ma la corrente delle esperienze continua a scorrere, totalmente indifferente ai nostri desideri e avversioni. Quando il sole è tramontato ti ha forse chiesto: “Hai finito il lavoro? Posso tramontare ora?” Quando il sole sorge domani ti chiederà: “Hai finito le tue marachelle? Posso sorgere ora?” C’è una splendida dottrina: “Dio ha creato il mondo per il piacere dell’uomo”. Io chiedo alla zanzara: “Sei davvero stata creata per il mio piacere o io per il tuo?”
Patanjali semplicemente suggerisce che osserviamo questo fenomeno e vediamo perché ci piace una cosa e non un’altra e non dice che perciò dobbiamo cercare il piacere ed evitare il dolore, ma: “Questo è un fatto, osservalo”.

II. 9 svarasavāhī viduşo api tathā arûdho abhiniveśah

Il cieco attaccamento alla vita è un fatto inesplicabile ma innegabile, si auto-sostiene (essendo solo un’altra fase o faccia dell’ignoranza) ed è un fattore dominante persino nella persone sagge, finché il corpo fisico, che è la sede operativa dell’ignoranza, esiste. L’attaccamento alla vita c’è per effetto del potere che mantiene il corpo fisico, per il manifestarsi dell’auto-conoscenza, abbinato all’abitudine di dipendere da fonti oggettive per i piaceri ed il sostentamento, alla paura di perderli e all’incapacità di vedere altri strati di esistenza.

L’ignoranza confonde lo spirito della coscienza immortale con il corpo mutevole e caduco e Abhiniveśah, il “cieco attaccamento alla vita”, si sostiene proprio a causa di quest’attaccamento. L’ignoranza può nascondersi alla vista, ma abhiniveśah è una prova inconfutabile della sua presenza.
Perché siamo legati alla vita, sapendo che dovrà finire? Perché siamo legati a questo corpo fisico, pur sapendo che dovrà morire? Sembra essere totalmente stolto e irrazionale. Patanjali spiega in maniera concisa, precisa e scientifica i fatti della vita e, quando tratta dell’attaccamento alla vita, persino lui dice: “Questo cieco attaccamento alla vita c’è, sembra auto-sostenersi e si riscontra anche nelle persone sagge”. Anche delle persone sagge e illuminate sono irrazionalmente restie a separarsi dal corpo.
Patanjali, pur spiegando la causa d’ogni altro fattore, quando tratta del cieco attaccamento alla vita, dice, “Non so”. Questo per me è un grande tributo agli Yoga Sutra.