BHAGAVAD GITA, CAP. III, versi 31-43

Cap. III                                                    31,32
Quegli uomini che praticano costantemente questo mio insegnamento con fede e senza cavillare, anch’essi sono liberati dal karma.
Coloro invece che biasimano il mio insegnamento e non lo praticano, delusi in ogni conoscenza e privi di discernimento, sappi che sono destinati a perdersi.
L’idea è chiara e semplice: chi pratica questo buddhi yoga, sentendo di essere uno con l’intera creazione, che l’unica coscienza cosmica pervade tutto e che in quella coscienza cosmica lui è uno con tutti, è istantaneamente liberato dall’ignoranza e da ogni karma che dà origine alla nascita e alla morte. La rinuncia all’egoismo distrugge tutto l’insieme di karma che attende di dare il suo frutto (sancīta); questi “effetti” delle azioni passate, non ancora pronti a trasformarsi in frutto, sono privati di quel corpo centrato sull’ego, intorno al quale spendere la loro energia. Persino il prārabdha karma, cioè il karma che ha già cominciato a risolversi in questa vita attraverso il corpo attuale, è privato dei suoi effetti, perché lo yogi non s’identifica con il corpo e le sue esperienze di piacere e dolore, ecc. Le azioni che lui svolge ora (āgāmi o kriyamāna karma) non sono compiute dall’ego; la sua mente è centrata in Dio e perciò c’è diretta realizzazione che le opere provengono da Dio. Perciò le azioni non hanno alcun effetto su di lui, che è liberato dal karma (la legge d’azione e reazione, causa ed effetto)[1]. Quando il corpo cade, lo yogi è totalmente assorbito nell’infinito.
Solo l’uomo di fede praticherà quest’insegnamento, ma la sua efficacia non dipende dalla fede, nel senso di convinzione! Non è una dottrina naïve per ipnotizzare i creduloni, ma un approccio scientifico alla vita divina. Non c’è neanche il suggerimento che sia l’unico sentiero! Vi sono altri mezzi per la liberazione – “anch’essi sono liberati”!
La conoscenza del Sé o la resa del sé è comune a tutte le religioni. Tutte incoraggiano l’aspirante ad arrendersi a Dio o alla ricerca e alla scoperta che non c’è un sé indipendente dalla totalità o Dio. Non importa come quella religione si chiami, ti porterà a questa libertà.


Cap. III                                                      33,34

Anche un saggio agisce in accordo alla propria natura; gli esseri seguono la natura: come si potrebbe impedire che questo avvenga?
L’attrazione e la repulsione per gli oggetti dei sensi risiede nei sensi stessi; che nessuno cada sotto il loro dominio, perché  questi sono i suoi nemici.

Il corpo, la mente ed i sensi sono parte della natura cosmica, divina e perciò non sono realmente “nostri”, ma funzionano in accordo alla natura dell’energia o del potere che possiedono. Così, gli occhi vedono gli oggetti illuminati, le orecchie odono i suoni, la lingua percepisce il gusto. Queste cose avvengono anche nel caso dei saggi, finché nel loro corpo c’è vita; finché la mente è legata al corpo, i sensi funzionano in modo naturale.
C’è una correlazione vibrazionale tra i sensi ed i loro oggetti specifici, come tra le onde radio ed il loro sistema trasmittente e ricevente. Quando sintonizziamo la radio su una particolare stazione, questa riceve le onde di quella lunghezza e frequenza e non le altre. Allo stesso modo c’è una scala vibrazionale tra la luce e gli occhi, il suono e le orecchie, l’odore ed il naso, ecc. Per questo, essi interagiscono per via naturale e tale interazione può essere favorevole o sfavorevole, a seconda che la sensazione percepita sia piacevole o spiacevole.
Fin qui il processo è automatico e, se la mente è rivolta dentro e l’intelligenza è unita al Sé, ci sarà equilibrio interiore, anche se i sensi possono continuare ad interagire in maniera naturale. Ma, se la mente, attraverso il pensiero, registra un’esperienza che, ad esempio, può essere piacevole, le piace e la rievoca in seguito come memoria e ne desidera una ripetizione: è così che viene messa in moto una reazione a catena che porta all’auto-distruzione (cfr.II 62,63).
L’insegnamento di Krishna non va frainteso: la mente umana è stata fortemente inquinata nel corso di millenni di cosiddetto progresso e tradizione, per questo non possiamo facilmente assumere cos’è la natura e cos’è naturale.
Essere naturale, in realtà vuol dire vivere ad immagine di Dio!


Cap. III                                                      35

Meglio è il proprio dovere (svadharma), anche se privo di merito, che il dovere di un altro ben praticato. Migliore è la morte nel compimento del dovere che ci compete; l’attuazione del dovere di un altro porta con sé pericolo.

L’insegnamento base della Bhagavad Gita è che la vita intera è sacra, che non ci sono cose elevate o basse nelle attività della vita e che le nostre azioni non devono essere motivate da desideri personali. In quali casi lasciamo il nostro dovere per fare quello di un altro? Spesso, se non fa parte di un naturale processo evolutivo, è perché siamo tentati da una ricompensa migliore o per essere notati.
Il desiderio del nome e della fama e forse dei benefici materiali che ne conseguono, attrae le persone, portandole fuori di quello che è il loro campo. Il professionista fa il suo lavoro con mente calma, chi non lo è si tormenta giorno e notte; le critiche normali della gente lo deprimono e lo infastidiscono. Questi sono stati emotivi che Krishna ci chiede di evitare.
L’ideale centrale della Bhagavad Gita è l’equanimità prima di tutto; tutto ciò che disturba il proprio equilibrio interiore è accompagnato da paura e pericolo. Dobbiamo raggiungere quell’equanimità e poi non permettere a nulla al mondo di farcela perdere.
La totale tranquillità della mente è indispensabile perché possiamo guardare dentro, per studiare la natura della mente e del pensiero, per vedere i nostri condizionamenti e la sorgente della paura, per realizzare cos’è il vero amore e per riconoscere la sua caricatura che è quella che siamo abituati a vedere normalmente, e anche per realizzare qual è la nostra vera natura e come è diventata perversa. Questa consapevolezza è il primo passo verso la vita illuminata che Krishna ci rivela.


Cap. III                                                      36, 37
Arjuna chiese: Ma, spinto da cosa l’uomo commette peccato anche contro la sua volontà, o Krishna, come se vi fosse costretto?
Il Signore beato disse: E’ la brama, è l’ira ed esse nascono da quella caratteristica della natura che è rajas, la passione che tutto divora ed è causa del peccato; sappi che questo è il nemico qui.
La domanda è molto pertinente: se la natura (che è divina) è responsabile di tutte le azioni e, se è inevitabile che i sensi reagiscano agli stimoli da parte dei loro oggetti, allora in che modo l’uomo è responsabile di un male che possa risultare da tale reazione? Perché si dice che un’azione è peccaminosa e che uno è peccatore?
Krishna va subito alla radice del problema e rivela il colpevole: il desiderio, l’ira o l’odio sono il peccato, l’attrazione e l’avversione sono i responsabili. Quando è il desiderio o un motivo egoistico che spinge a fare un’azione, c’è il peccato.
Se è solo il motivo o l’atteggiamento interiore a decidere, allora possiamo usare questa regola per coprire le nostre malefatte? Ovviamente no, perché non dobbiamo dimenticare che sapremo qual è la cosa giusta da fare, solo se la nostra mente è tranquilla e la nostra intelligenza è unita Dio. Ordinariamente, dobbiamo aderire ai principi morali conosciuti; tale accettazione porta subito alla tranquillità interiore. Quando c’è tranquillità, la visione interiore è limpida, non è agitata. Il desiderio nasce quando la saggezza è velata e quando c’è inconsapevolezza. Quando la luce interiore diventa consapevole dell’insorgere del desiderio, in quell’istante sorge anche la distinzione tra i bisogni naturali (come la fame e la sete) e le brame non naturali; quello che non è naturale non succede e quello che è naturale non viene interpretato come “mio desiderio” dal pensiero. In questo modo non viene costruito quel sentiero dell’inconsapevolezza e della mancanza di saggezza che incoraggerebbero la ricerca del piacere e la formazione di desideri e avversioni.



Cap. III                                                     38, 39
Come il fuoco è coperto dal fumo, uno specchio dalla polvere e l’embrione dalla placenta, così questa saggezza è coperta dal desiderio egoistico.
O Arjuna, la saggezza è coperta da questo costante nemico del saggio nella forma del desiderio, che è insaziabile come il fuoco.



Cap. III                                                      40, 41
I sensi, la mente e l’intelletto sono detti essere la sua dimora; attraverso di essi, il desiderio svia l’anima incarnata, velando la sua saggezza.
Perciò, o Arjuna, acquisendo prima il controllo dei sensi, sconfiggi questo perfido distruttore della conoscenza e della realizzazione.


Cap. III                                                      42, 43
Si parla della superiorità dei sensi. Superiore ai sensi è la mente. Superiore alla mente è l’intelletto. Superiore anche all’intelletto è il Sé.
Avendo acquisito la conoscenza di essere superiore all’intelletto, e rendendo stabile la mente con la luce dell’intelletto, sconfiggi, o Arjuna il nemico che ha la forma del desiderio, così difficile da affrontare.
OM       TAT       SAT
Così, nella upanişad della gloriosa Bhagavad Gītā, la scienza dell’eterno, la scrittura dello yoga, il dialogo tra Srī Kŗşna e Arjuna, termina il terzo discorso intitolato:
LO YOGA DELL’AZIONE

[1] Karma: azione. E’ di tre tipi: Sancīta (tutte le azioni accumulate dalle vite precedenti), Prārabdha (la porzione di tale karma destinata ad essere risolta in questa vita attuale) e Āgāmi (il karma che l’individuo crea con le sue azioni presenti). E’ il karma che operando attraverso la legge di causa ed effetto lega la Jīva, cioè l’anima individuale alla ruota della nascita e della morte.