BHAGAVAD GITA, CAP. IV, versi 1-18




Cap. IV                                                      1-3
Il Signore beato disse: Insegnai questo yoga immortale a Vivasvān, il dio del sole, e Vivasvān lo proclamò a Manu, padre dell’umanità, Manu lo insegnò al re Ikşvāku.[1]
Così, trasmesso in regolare successione, lo conobbero i saggi reali. Ma col passare del tempo, questo yoga si è perso, o Arjuna.
Quello stesso antico yoga oggi lo insegno a te, perché sei mio devoto e mio amico; questo è il sommo segreto.
Cap. IV                                                               4-6
Arjuna disse:
Posteriore è la tua nascita, anteriore quella del sole. Come posso comprendere che tu hai insegnato questo yoga in origine?
Il Signore beato disse:
Molte sono le mie vite passate, così come le tue, o Arjuna; io le conosco tutte, ma tu non le conosci, o distruttore dei nemici.
Sebbene io sia non-nato e di natura inalterabile, pur essendo il Signore di tutti gli esseri, governando sulla mia propria natura, io nasco attraverso il potere che mi appartiene.


Cap. IV                                                            7
Quantunque c’è un declino della giustizia, o Arjuna e l’affermarsi dell’ingiustizia, allora io mi manifesto.


Cap. IV                                                                 8 
Per la protezione dei buoni, per la distruzione di malvagi e per ristabilire la giustizia, io nasco di era in era.
Cosa fa Dio, quando si manifesta? Protegge i buoni, distrugge i malvagi e ristabilisce la giustizia. “I buoni…” non significa soltanto le persone buone; anche le buone e cattive tendenze possono essere incluse nell’ambito di questo verso. Sono i buoni ad essere protetti, non una comunità privilegiata, perciò, come dice Swami Sivananda: “Sii buono e fa il bene”, se vuoi la protezione divina!
Non c’è una vera distruzione delle persone malvagie – queste devono essere purificate e redente. Solo la natura o le tendenze cattive devono essere distrutte. Perciò, anche le persone buone che Rāma e Krishna protessero, morirono e le persone malvagie, che essi uccisero, salirono in cielo, perché la loro natura malvagia era stata eliminata.
Questa è l’unica definizione dello scopo dell’avatāra (discesa di Dio). Il criterio che determina chi è un’ avatāra non è la sua nascita soprannaturale o le sue azioni prodigiose o il fatto che appare o scompare miracolosamente, ma il suo potere di ristabilire la giustizia. Per questo, noi consideriamo l’essere umano Rāma come avatāra e non il potente e “sovrumano” Rāvaņa. Sotto questa luce, Rāma, Krishna, Buddha, Zarathustra, Mosé, Gesù, Maometto e Mahāvīra, sono tutti avatāra di Dio.
Noi ammettiamo che il figlio di Dio sia come Dio; il figlio di un leone è un leone. Noi ammettiamo che anche il Profeta dell’Islam sia un avatāra; il messaggero inviato dalla luce non è altro che luce. Quando una candela ne accende un’altra, quella è una candela – non figlia della candela, né messaggera di quella candela.
Poiché l’avatara vela se stesso con il potere suo proprio (māyā), egli si può comportare come Dio o come uomo, può proclamare la sua divinità o celarla – se sostiene la giustizia, è Dio.




Cap. IV                                                                   9                                 
Colui che conosce nella loro vera essenza la mia divina nascita e il mio operare, non avrà altra nascita dopo aver lasciato il corpo, ma a me egli verrà, o Arjuna.

La prima persona singolare usata in questa scrittura non si riferisce alla personalità “Krishna”, ma a Dio che si rivela attraverso di lui. Perciò chi parla potrebbe essere Krishna, Cristo, Buddha o Allah; il suo significato e la sua importanza non ne soffrirebbero.
E’ in questa luce che dovremmo interpretare la dichiarazione di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno può venire al Padre se non attraverso me”[2]. Possiamo realizzare il Dio infinito solo attraverso la divinità manifesta.
Non c’è però nessun male nel fatto che i seguaci di Krishna aderiscano ai suoi piedi con tutto il loro zelo e che i seguaci di Cristo considerano lui come l’unica via. Quello che è dannoso invece è scoraggiare gli altri dal loro sentiero, cosa che comunque non porta a niente di buono. E’ anche assurdo affermare: “Solo mia madre è una donna capace di dare alla luce dei veri figli, le vostre non possono farlo”. Abbiamo tutti una sola madre, ma la maternità non è limitata a quella sola donna, è comune a tutte la donne.
La divinità manifesta è più accessibile dell’essere trascendentale non manifesto, infatti quello è il vero scopo della manifestazione o avatāra: Dio che scende simbolicamente al nostro livello per accettarci, redimerci ed elevarci. Quando impareremo a non cercare cavilli in questi avatāra, ma ad accettarli, adorarli e pregarli, conoscendo la loro vera natura divina, avremo ottenuto l’illuminazione e la liberazione.
E’ ugualmente importante ricordare che “conoscere la loro vera natura” implica il riconoscimento della propria essenziale natura divina e del bisogno urgente di liberarsi della polvere che la nasconde. Tale riconoscimento è anch’esso un avatāra!


Cap. IV                                                                   10    
                            
Liberi dall’attaccamento, dalla paura e dall’ira, assorti in me, prendendo rifugio in me, purificàti dal fuoco della conoscenza, molti hanno raggiunto il mio essere.

Quando ci convinciamo dello scopo divino che c’è dietro la creazione e cioè la restaurazione della giustizia e la distruzione del male, abbandoniamo il vano desiderio degli oggetti del mondo e l’attaccamento che abbiamo per essi. Il desiderio e l’ira cessano in noi e, quando ci assicuriamo la protezione divina con la nostra retta azione, anche la paura si allontana. Secondo la moderna psicologia, “simpatie, antipatie e paura” sono presenti anche nel neonato. Ma nello yogi queste sono assenti!
Tutto questo è possibile se coltiviamo il fuoco della conoscenza dentro di noi e lo teniamo sempre acceso; questo fuoco allontana le tenebre dell’ignoranza e ci dà il conforto ed il calore della protezione divina. Ci protegge dalle cattive tendenze e promuove la bontà dentro di noi, perché cominciamo a renderci conto che la bontà è più vicina a Dio. Questa conoscenza ci conferisce il dono più grande della tolleranza e della forza d’animo per sostenere le contrarietà ed i momenti negativi nella convinzione che non possono farci del male ma che al contrario ci tengono svegli e ci riportano al centro, a quella che è la sorgente e la meta del nostro essere, la base della nostra esistenza. “Il conoscitore di Dio diventa Dio”, dicono le Upanishad: la legna offerta al fuoco diventa fuoco. Quest’uomo di Dio è uomo solo alla nostra visione umana, ma in realtà è uno con Dio.


Cap. IV                                                          11,12
In qualunque modo gli uomini si avvicinano a me, così io vado da loro; in tutte le maniere essi seguono il mio sentiero, o Arjuna.
Coloro che desiderano il successo nelle loro imprese in questo mondo, sacrificano alle varie forme della divinità, perché rapido è il successo attraverso tale azione.
[3].
Se uno comprende che Dio è buono, perfetto, pieno di luce, vita e amore, allora sperimenterà queste qualità in sé e intorno a sé; Dio stesso va da lui in quella maniera. Uno che non ha fede in una verità o realtà duratura, si circonda di dubbi; chi considera Dio come un tiranno, vive nel terrore.
Dio ha dotato l’uomo dell’intelligenza che è una scintilla dell’onniscienza di Dio, e della libera volontà che è una specificazione della sua onnipotenza; può usarle per la sua elevazione o per la sua rovina. E’ libero entro ampi confini.
Gli indù credono fermamente che gli infiniti modi di vedere Dio (che sono le differenti religioni) sono tutti validi e ci condurranno allo stesso Dio. L’esperienza ultima, cioè Dio che realizza se stesso, è fuori dei confini dell’ego; ma anche la più alta esperienza spirituale può differire da persona a persona, come viene rivelata nelle “diverse” religioni. Questa convinzione ci riempie di tolleranza e comprensione, senza farci perdere la nostra individualità.
Anche coloro che cercano acquisizioni materiali (o anche la perfezione spirituale) si rivolgono solo a Dio attraverso le sue manifestazioni (i poteri della natura di Dio) e Dio risponde attraverso lo stesso canale, conferendo i frutti di quelle azioni (successo e fallimento, piacere e dolore e così via). Questa è anche la base delle numerose tecniche di “guarigione spirituale”. Adoriamo Dio soltanto, in tante maniere; questa conoscenza ci libera dalla paura, dall’attaccamento, dall’ira, dall’intolleranza e dal proselitismo.


Cap. IV                                                           13-18

13. Il sistema delle quattro caste fu creato da me secondo la suddivisione delle qualità e delle opere. Sappi che io, sebbene sia il creatore, sono uno che non agisce e non muta.
14. Le opere non mi rendono impuro; in me non c’è desiderio per il frutto delle azioni. Chi conosce me come tale non è vincolato dalle azioni.
Quest’ultimo verso può essere usato come formula di meditazione, per liberare l’anima dalla trappola del corpo e della mente: la parola “me” viene così riferita all’anima, alla coscienza testimone, il vero Sé che non è macchiato da alcuna azione del corpo e della mente.
 Questa meditazione libera dal vincolo del karma.
15. Con questa consapevolezza, anche gli antichi che aspiravano alla liberazione si dedicarono all’azione; perciò compi anche tu le tue azioni, come fecero i nostri antenati nel passato.
16. Cos’è l’agire? Cos’è il non-agire? A questo proposito, anche i saggi sono confusi. Perciò io t’insegnerò quel tipo di azione, conoscendo la quale tu sarai liberato dal male.
17. Si deve comprendere la vera natura dell’agire e anche dell’agire non-retto e del non-agire; è molto difficile comprendere il sentiero dell’azione.
18. Colui che vede l’inazione nell’azione e l’azione nell’inazione, è un saggio tra gli uomini; è uno yogi ed è l’autore di tutte la azioni.

L’enigma si può risolvere soltanto “vedendo” l’intero universo come un unico corpo divino in cui dimora la coscienza cosmica, che è  l’eterna testimone, in quanto non è coinvolta  in qualunque cosa accade in esso (come lo spazio).
Nel corpo cosmico le infinite cellule vibrano costantemente. Quando vibrano in sintonia con la legge divina si dice che sono buone, che fanno il bene e che si adoperano nella retta azione. Quest’armonia è comunque spontanea, non razionale e non-volitiva.
Quando alcune di queste cellule, a causa dell’inerente libera volontà, si comportano in contrasto con la volontà divina, quest’ultima, per proteggere l’intero organismo da conseguenze dannose, permette con il suo potere, alle cellule ribelli di disintegrarsi, proprio come una palma che sfida una tempesta è abbattuta, mentre una foglia d’erba che si piega viene salvata; come una cellula sana nel nostro organismo viene protetta e una cellula che non coopera con la forza vitale viene eliminata.
Se il nostro sintonizzarci con la volontà divina è cieco e impulsivo, possiamo a volte trovarci ad affrontare un dilemma, ma se ci sintonizziamo in base alla giusta comprensione che noi, che sembriamo così attivi non facciamo niente, e che è invece la sottile, intangibile volontà divina ad essere sempre attiva, allora scopriamo l’unità della nostra intelligenza limitata con la sua, realizziamo l’unità della nostra volontà limitata con la sua volontà infinita e del nostro intero essere con il suo. L’«io» si dissolve nel tutto, che è l’autore di tutte le azioni.
L’agire istintivo della persona impulsiva e l’agire egoistico, astuto e calcolato del razionalista sono in realtà inazione: sono entrambi reazioni, la prima agli stimoli esterni e la seconda alle circostanze.
Una persona saggia osserva se stesso e il mondo intorno a sé, e questa consapevolezza di sé agisce in maniera spontanea e non volitiva. Perciò la vera azione è “inazione”. La consapevolezza del vero Sé è l’azione totale.


[1] Anche il Buddha affermava di essere stato maestro di un gran numero di Bodhisattva nel corso di epoche passate (Saddharmapuņdarīka, XV,I). Gesù disse: «Io ve lo dichiaro solennemente: prima che Abramo nascesse, IO SONO.» (Gv, VIII,58).
[2] Gv 14,6
[3]“Nome e forma sono usati per raggiungere ciò che forma non ha; e si può adottare il tipo di meditazione che ha per oggetto la forma preferita” Bhagavad Gita, Ubaldini, p.192 (v. Yoga Sutra, I,39: Yathā bhimata dhyānad vā.) (N.d.T.)