BHAGAVAD GITA, CAP. IV, versi 19-35



Cap. IV                                                                19-20

Colui che agisce libero da ogni desiderio e scopo personale e le cui azioni sono state tutte purificate dal fuoco della conoscenza, lui i saggi chiamano un uomo di sapere.
Avendo abbandonato l’attaccamento per i frutti delle azioni, sempre soddisfatto, senza dipendere da alcunché, egli non fa nulla sebbene sia sempre occupato ad agire.

L’universo, pur vibrando senza posa, è radicato nella quiescente realtà suprema (Brahman), che è la stessa pace infinita. Il corpo, sempre attivo, è dimorato dallo spirito che è la pace suprema che supera ogni comprensione. Al di sotto della superficie turbolenta, l’oceano stesso è calmo. La frammentazione è conflitto, l’integrità è pace.
L’attività è la natura della forma, la quiescenza è la natura della spirito. L’ignara sovrapposizione delle caratteristiche della forma sullo spirito è la causa basilare di una sofferenza senza fine. Chi considera lo spirito quiescente come autore delle azioni paradossalmente si sforza di frenare la forma (il corpo e la mente) dalla loro naturale attività! Questa persona è piena di tensioni, pensa di sapere cosa fare e cosa non fare; è pieno di desideri e schemi. I desideri e gli schemi sono generatori di tensione. Quella persona non sa chi è veramente. Solo la conoscenza di sé elimina l’egoismo.  Perciò Gurudev Sivananda insisteva: “Sii buono, fa il bene”, in quest’ordine.
La cellula che è inconsapevole del corpo intrattiene desideri egoistici ed ha i propri schemi personali. Quando il fuoco della conoscenza che tutti siamo cellule nel corpo di Dio brucia quest’ignoranza, allora lo stato di pace,  che nasce dalla resa totale alla volontà di Dio sorge.  L’egoismo e tutto il male che l’accompagna scompaiono, proprio come il fantasma nel sogno del sognatore svanisce al suo risveglio.
Una persona che è sveglia a questa conoscenza non è inattiva ma è un vero canale per il fluire della volontà di Dio. Le azioni di una persona tale sono movimenti nella coscienza cosmica, senza causa, senza meta, senza dipendenza, e senza l’idea “io faccio questo”.


Cap. IV                                                                 21, 22

Libero da desideri e con la mente e lo spirito controllati, avendo abbandonato ogni senso di possesso, agendo solo per mantenere le funzioni vitali, non incorre nel male.
Soddisfatto di ciò che gli giunge naturalmente, libero dalle coppie di opposti e dall'invidia, equanime nel successo e nel fallimento, pur agendo, non rimane vincolato.

Il desiderio, e la conseguente attività programmata in base ad esso, generano il male: quando capita che sono in accordo con la volontà divina, confermano l'ego nel suo arrogarsi come l'autore delle azioni; quando non lo sono e quindi c’è un fallimento, causano uno stato di tensione che intensifica l’ignoranza dell’anima.
Anche la mente del saggio può intrattenere delle speranze: se si tratta di uno yogi che ha raggiunto la perfezione, queste saranno invariabilrnente il riflesso della volontà divina; se è un aspirante sincero, spererà per il successo, ma sarà preparato per l'opposto! In questo modo supera l'una e l'altra. Questo non è mero “pensare positivo”, ma “pensare perfetto”. Ci sforziamo, perché questa e la nostra natura ed è anche l'espressione della natura divina in noi. Questo sforzo può anche essere sostenuto dal "pensare positivo'" e dal desiderare il meglio, ma è libero dalla proiezione egoistica della propria volontà, perché siamo preparati per quello che al momento sembra essere il peggio (nella ,conoscenza che la volontà di Dio è sempre il meglio). Questa fusione di positivo e negativo e il "pensare perfetto" che li trascende entrambi.
Il piacere e il dolore, il successo e il fallimento. sono l’interpretazione egoistica della volontà divina fatta dall’uomo, che suddivide la vita in frammenti o che stoltamente immagina che la medaglia della vita abbia una sola faccia, quella del piacere e del successo!
Lo yogi non è un pessimista malinconico: lui spera per il meglio, ma accetta qualunque cosa accada come il meglio! In lui i mali dell’ignoranza del desiderio e delle speranze personali, sono assenti.

Cap. IV                                                                      23, 24

Per uno che non ha attaccamenti, che è liberato, la cui mente è stabilita nella conoscenza, che fa d’ogni sua azione un’offerta, il suo operare non causa vincolo.
L’atto di offrire è Brahman, il burro offerto è Brahman; da Brahman l’offerta è versata nel fuoco che è Brahman. Lo stesso Brahman sarà raggiunto da chi vede sempre la Realtà Suprema nell’azione.
Dio, la Realtà o Brahman non è un’esistenza statica ma un processo, senza inizio né fine; perciò non c’è niente che non sia sacro nell’universo. Vivere in questo spirito è “brahma-karma-samādhi” o partecipazione non egoistica alla volontà divina, descritta nel verso ventuno come agendo solo per mantenere le funzioni vitali, senza la minima traccia di nozione egoistica che crei la separazione dalla totalità. La persona saggia vede che le funzioni vitali sono e restano indipendenti dall’ego!

Cap. IV                                                                                                                 25

Alcuni yogi offrono il sacrificio ai vari aspetti della divinità, altri offrono come sacrificio il sacrificio stesso nel fuoco di Brahman.
La più alta saggezza non si ottiene dalla sera alla mattina. La coscienza dell’uomo è adombrata dall’ignavia e dalle superstizioni, dall’orgoglio e dal pregiudizio, da false nozioni e ideologie. Per sradicarle occorre una graduale evoluzione e sublimazione ed in questo sentiero occorre essere eternamente vigilanti per non scivolare di nuovo nell’ignoranza o per non correre sempre intorno allo stesso cerchio.  La vigilanza eterna non è differente dall’illuminazione istantanea!
Offrire il sacrificio stesso vuol dire che tutte le azioni che prima erano fatte egoisticamente, sono offerte nella conoscenza della realtà trascendentale che è il testimone eterno del dinamismo della sua natura.

Cap. IV                                                                26,27

Alcuni offrono l’udito e gli altri sensi come sacrificio nel fuoco del controllo, altri offrono il suono ed altri oggetti dei sensi come sacrificio nel fuoco dei sensi.
Altri ancora sacrificano tutte le azioni dei sensi e quelle del respiro nel fuoco dello yoga dell’autocontrollo, acceso dalla conoscenza.
I rituali esterni, che sono necessari per la grande maggioranza delle persone, sono d’ispirazione ai “rituali interni” o processi di meditazione:
1.      Accendi il fuoco dell’autocontrollo dentro; in quel desiderio ardente di ottenere il controllo perfetto, offri i desideri e le bramosie dei sensi come e quando sorgono. Il simbolo del sacrificio del fuoco sarà d’aiuto.
2.      Nel caso delle attività e dei godimenti che sono inevitabili  e fanno parte della vita, visualizza i sensi stessi come fuoco del sacrificio. Offri gli oggetti del piacere stesso in quel fuoco: questo è un modo efficace per liberarsi delle “simpatie e antipatie” che sorgono come risultato di una stima esagerata degli oggetti del mondo. Gli oggetti sono come inerte legna da ardere, carburante per i sensi, che sono il fuoco da tenere acceso finché sarà necessario, per l’illuminazione dell’anima.
3.      In un tipo di meditazione più elevato, il fuoco è samyama (combinazione delle pratiche di concentrazione, meditazione e samādhi) e l’offerta è l’azione (passata e presente) di tutti i sensi e anche della forza vitale.

Una volta che l’oblazione è offerta nel fuoco, essa diventa un tutt’uno con il fuoco che solo risplende. Così, quando i sensi e l’energia vitale sono offerti nel fuoco di atmā-samyama, il sé soltanto risplende, dopo aver assorbito i sensi e l’energia vitale come oblazione dentro di sé.




Cap. IV                                                               28, 29

Altri ancora offrono ricchezze, austerità e yoga come sacrificio, mentre gli asceti dai rigidi voti e dall’autocotrollo offrono lo studio delle scritture e la conoscenza come sacrificio.
Altri offrono come sacrificio il soffio vitale discendente nel soffio vitale ascendente ed il soffio vitale ascendente nel soffio vitale discendente, regolando il corso di prāna e apāna, completamente assorti nel controllo del soffio vitale.

Gradualmente lo spirito di yajnā o sacrificio, dovrebbe espandere fino ad includere tutte le proprie attività, sacre e profane; in tutte queste il simbolismo di “sacra oblazione” dev’essere ben compresa e correttamente applicata.
1.      Negli atti di carità, il ricevente è il fuoco ed il dono e l’oblazione; la persona saggia non si aspetta neanche una parola di ringraziamento. L’atto è completo in se stesso.
2.      Nell’austerità, il fuoco è la rinuncia e la privazione, i desideri e le brame sono l’oblazione: il fuoco brucia di più con ogni oblazione.
3.      Nello yoga, il sé interiore è il fuoco e le modificazioni mentali sono l’oblazione. Il fuoco purifica queste ultime e le trasforma in pensieri puri (sat sankalpa).
4.      Svādhyāya o studio di sé e delle scritture: il desiderio della conoscenza del sé è il fuoco che si rinvigorisce con ogni successiva oblazione di studio delle scritture.
5.      Jñāna-yajña o sacrificio della saggezza: i ricercatori della verità sono il fuoco e la conoscenza stessa è l’oblazione: i ricercatori vengono illuminati.
6.      Nel prāņāyāma, la componente solare o positiva del soffio vitale (chiamata prāna)  è offerta o unita alla componente lunare o negativa (detta apāna) e la negativa è versata in quella positiva, al plesso solare. Il fuoco così generato fa risvegliare la dormiente kuņdalinī śakti, la cui unione con Śiva nel chakra della corona è l’illuminazione.



Cap. IV                                                                30, 31

Altri che regolano la loro alimentazione, offrono la forza vitale nella forza vitale. Tutti questi conoscono il sacrificio ed i loro peccati sono distrutti dal sacrificio.
Coloro che mangiano il cibo sacro che resta dal sacrificio, che è come nettare, raggiungono l’eterno Brahman. Questo mondo non è per l’uomo che non pratica alcun sacrificio; come può questi ottenere l’altro mondo, O Arjuna?
Infine ci sono quelli che regolano la loro alimentazione nutrendosi solo di quanto basta a vivere. Quando la loro forza vitale richiede più cibo, essi offrono questa richiesta stessa alla forza vitale, porgendo, in un certo senso, la forza vitale stessa come oblazione a se stessa.
Lo spirito del sacrificio distrugge il peccato. Tutte queste pratiche non sono né buone né cattive in se stesse; per esempio, l’austerità (tapas o fuoco) può condurre alla distruzione della propria natura cattiva oppure può aumentare ancora di più la propria vanità, a seconda dello spirito interiore. Lo spirito del sacrificio o yajña “separa” il proprio sé dall’attività stessa, permettendo così a quell’atto di ripulire lo specchio, in modo che in esso l’anima, eternamente pura si rifletta in tutta la sua gloria. Lo spirito del sacrificio ci ricorda di non aspettarci nulla in cambio: solo le ceneri della purezza o sattva rimangono alla fine del sacrificio. Le sacre ceneri sono molto care al signore Śiva (la grazia divina stessa) il quale naturalmente ci concede tutto ciò che è buono.
Le rimanenze del sacrificio sono nettare che conferiscono su di noi l’immortalità (il riferimento è anche a quello che rimane dopo aver donato in carità, soprattutto di cibo, che diventa sacro e purifica il nostro cuore); dobbiamo far sì che nutrano ogni aspetto della nostra vita.
Chi è privo dello spirito di sacrificio, la persona egoista che pensa solo alla soddisfazione propria, è solo un fardello su questa terra.



Cap. IV                                                             32, 33

Così, varie forme di sacrificio si dispiegano dinanzi a Brahman. Sappi che nascono tutti dall'azione e così sapendo, sarai liberato.
Superiore è la conoscenza come sacrificio ad ogni sacrificio materiale. Tutte le azioni nella loro interezza, O Arjuna, culminano nella conoscenza.

Tutti i tipi di sacrificio indicati sono solo esempi e indicano l’essenza dell’arte di vivere: lo spirito di sacrificio o di non-egoismo;  non è un ideale chiamato altruismo ma la diretta realizzazione che non c’è un sé indipendente dalla totalità. Con questo aroma l’uomo darà fragranza a tutte le sue azioni: questo è lo spirito che, nelle intenzioni del Creatore, dovrebbe governare tutte le attività su questa terra. Mentre le cosiddette specie inferiori (le piante e gran parte degli animali) vivono istintivamente in questo spirito, l’uomo disprezza la volontà divina, e attribuisce l’azione a se stesso. Chi acquisisce questa conoscenza e agisce con questo spirito è liberato dall’ignoranza, dall’egoismo, dal ciclo causa-effetto e dalla sofferenza.
Tutte le offerte e tutte le attività sono transitorie; anche l’azione più spettacolare si riduce ad alcune righe su un libro di storia e ad una tendenza in più nell’anima, se non è accompagnata dalla giusta conoscenza. La conoscenza invece libera l’anima dal legame al samsāra o la ruota inesorabile della nascita e della morte.
Mentre le azioni sono inevitabili, la conoscenza è lo scopo; le azioni inevitabili devono essere praticate nello spirito del non-egoismo, ma la conoscenza dev’essere acquisita e offerta in ogni occasione, perché la conoscenza di sé è lo scopo delle azioni stesse.



Cap. IV                                         34, 35 

Consegui la conoscenza prostrandoti davanti ai saggi, ponendo domande e servendo: i saggi che hanno realizzato la verità ti istruiranno in quella conoscenza.
Con quella conoscenza, non cadrai più nella confusione come ora, O Arjuna, e per mezzo di essa vedrai tutti gli esseri nel Sé e anche in Me.
La conoscenza che è tanto la meta quanto la base di tutte la azioni, la conoscenza dello spirito del sacrificio, dev’essere appresa dai “conoscitori della verità”, ma questi aspettano che gli aspiranti si avvicinino a loro con l’atteggiamento del discepolo.
La prostrazione è solo un simbolo di resa: prapatti. Questa parola  ha un significato molto profondo:  lo studente sente nell’intimo del suo cuore di essere sprofondato nel dolore per mancanza di conoscenza, che non può ottenerla da solo, dai libri, ecc., e che solo il guru può guidarlo. Prima che questo triplice atto sia percepito in maniera immediata e diretta e che la propria vana “conoscenza” sia fermamente rigettata (tutte cose che permettono alla vera umiltà di sorgere nel proprio cuore) nessun insegnamento è di alcuna vera utilità pratica: anche se della conoscenza viene acquisita, non fa che appesantire l’intelletto, facendo sprofondare l’uomo ancora più in basso nel fango della vanità. Ma una volta che il giusto atteggiamento è acquisito, c’è una profonda e genuina aspirazione nel cuore che ci permette d’imparare  da chiunque e da qualunque avvenimento: Dattatreya ebbe ventiquattro gurū.
Lo jñāni o il guru è come un ponte; il ponte è una mano che dall’“altra sponda” ci viene in aiuto. Il guru è la mano di Dio che raggiunge l’aspirante. L’aspirante deve lasciar cadere la sua vanità davanti al guru e provare la sua devozione offrendo con tutto il cuore il suo servizio; allora il guru impartirà la più alta conoscenza al discepolo. Comprendendo, afferrando e assimilando l’insegnamento, questi avrà esperienza della coscienza cosmica. L’incorretta comprensione di uno di questi fattori rende ridicola la bellissima relazione guru-discepolo.