Yoga Sutra II. 16-20


II.16.  heyam duhkham anagatam
   Eppure, non tutto è perduto. Poichè il dolore che non è ancora “arrivato”, che non è ancora giunto sul campo dell’esperienza, può essere evitato; l’infelicità che non ci è ancora giunta può essere evitata, evitando il contatto psichico con essa.
Qui Patanjali espone la filosofia dello yoga che ci permette di vedere la via per trattare con i nostri problemi, e di arrivare infine al punto in cui i problemi non sorgono più. Questa è probabilmente l’unica descrizione positiva dello scopo della filosofia data negli Yoga Sûtra.
L’infelicità che ancora non ti ha raggiunto può essere evitata. Questo è un insegnamento sensazionale che ci viene dato; non dire che, siccome sei infelice e coinvolto in questa situazione così complicata, devi continuare ad invitare la sofferenza per tutta la vita.
Vi sono persone che vanno a battere la testa contro il muro quando hanno un’emicrania. Ma quel gesto aggrava il mal di testa e quando non lo fanno più, la forma aggravata di mal di testa se ne va e loro fingono che l’emicrania sia scomparsa. Non è questo che cerchiamo, cerchiamo una maniera con la quale possiamo intelligentemente trattare con la sofferenza che è già sorta nella nostra vita e un modo per fermare quella che non ci è ancora giunta. Questo, lo yogi dice, è possibile.
Finché spingi via il dolore, lo stai toccando.
Perché vuoi toccare qualcosa che, in ogni caso, si sta allontanando da te? E’ arrivato da qualche parte verso di te e, lasciato a se stesso, allo stesso modo si allontanerà. Lascialo stare, ma utilizza quella situazione d’infelicità in cui ti puoi trovare, per guardare dentro e scoprire il meccanismo che ti ha intrappolato in quella sofferenza.
Non vuol dire che devi accogliere con gioia la sofferenza, che devi accettarla o sopportarla (tutti questi discorsi sono irrilevanti alla nostra discussione). Devi cercare di eliminare il dolore senza uno sforzo. Come puoi farlo? Restando tranquillo ed esaminando l’intera dinamica della sofferenza, del dolore. Osservi direttamente il dolore – cosa completamente diversa dall’analisi. Se analizzi il dolore, questo si moltiplica. Senza analizzare, senza intellettualizzare o creare dei concetti e delle immagini della sofferenza, se osservi direttamente questo fenomeno del dolore psicologico, lo vedi come un’esperienza.
Un’esperienza presuppone la divisione in un soggetto ed un oggetto, tu sei il soggetto dell’esperienza, l’altro è l’oggetto dell’esperienza (sia che l’oggetto sia materiale o un’altra persona, senziente o inanimato o un fenomeno psicologico).
E’ l’esistenza o il sorgere della divisione che causa l’esperienza – che sia considerata un’esperienza piacevole o spiacevole. Hai separato te stesso dall’universo e hai perduto la realtà. Ora puoi solo entrare in relazione con l’universo attraverso l’attività mentale o le nozioni; questa attività di vŗtti o vita basata su vŗtti è dolore.
L’unica maniera per fermare il dolore, prima che ti raggiunga, è di non permettere che questa divisione avvenga in prima istanza. Quello è samādhi, meditazione, nirvāna, liberazione, mokśa, o comunque vogliate chiamarlo.

II.17. drştr dŗśyayoh samyogo heya hetuh

   Come evitare il contatto con l’esperienza d’infelicità? Comprendendo la struttura di questa esperienza. Qual’è la struttura dell’esperienza? La divisione o polarizzazione dell’esperienza in un’entità che fa l’esperienza e l’esperienza stessa, ed il conseguente congiungimento o contatto del soggetto e dell’oggetto dell’esperienza - e questo può essere evitato. Essendo l’esperienza l’unica realtà, il soggetto e l’oggetto sono di natura identica, e il pensiero è l’agente dividente. Il pensiero è di dolore, piacere, ecc.,  e il pensiero ha esperienza di dolore, piacere, ecc., attraverso l’azione psicologica di divisione e contatto. La possibilità di evitare il dolore c’è a causa dell’unità tra il vedente (l’entità che ha l’esperienza) e il visto (l’esperienza), senza una divisione.
Vi sono molte diverse maniere per trattare con questo:
1). C’è un stato di ciò che è, l “essere”, ma insieme ad esso c’è anche un’insoddisfazione di quell’essere, ed un desiderio o una bramosia di diventare qualcos’altro. Il conflitto tra “essere” e “divenire” è quello che è chiamato infelicità. E’ semplicissimo se lo si comprende chiaramente. E’ il conflitto tra essere e divenire che ci rende infelici. Quando si lascia cadere quel conflitto, i due diventano uno – in altre parole “essere” soltanto rimane. E’ una consequenzialità illusoria che l’essere diventi un divenire.

Per esempio, io ho cinquantaquattro anni, ma la stessa persona due anni fa diceva: “Io ho cinquantadue anni”. Quell’io è costante. Non è coinvolto in questa successione di eventi, anni e date, eppure c’è un fraintendimento illusorio in quello, di essere coinvolto in questa successione chiamata “tempo”. Quando si scopre che quel coinvolgimento è non-esistente, c’è pace totale. Io non sono né quello che ha cinquantadue anni, né cinquantaquattro né settantacinque. “Io sono”. Punto e basta. Una divisione illusoria che si era creata è stata abolita.
E’ di fondamentale importanza che noi ricordiamo durante tutto lo studio dello yoga che non c’è stata una divisione di fatto. Se ci fosse stata, non si potrebbe mai ricomporre, una volta separato, non può più essere ricomposto. E’ l’intrusione illusoria di quest’ignoranza e bramosia che produce una divisione illusoria tra l’essere, cioè quello che sei, e quello che vuoi essere; tra quello che sei e quello che vuoi avere. Quando quella divisione illusoria subentra, sei triste e infelice. La base fondamentale della filosofia yoga è che niente è mai successo a te, all“essere”, e quell’“essere” è al di là dell’ignoranza e perciò non ha nulla a che fare con il seguito dell’ignoranza: l’infelicità, l’esultanza, il piacere, la paura o il desiderio.
Lo yogi scopre che la vera natura del suo essere è il continuo essere che non diventa altro che essere; che rimane essere.
L’infelicità è la brama o il desiderio della felicità; noi consideriamo una certa esperienza come infelicità, perché desideriamo qualcos’altro: quel desiderio di ciò che consideriamo essere la felicità, è l’infelicità. Se si lascia cadere il desiderio di qualcos’altro, questo stesso diventa felicità! Quando l’infelicità è vista a distanza (cioè, quando non ti ha ancora raggiunto) vedi una connessione bella e miracolosa – l’infelicità è legata al desiderio. Se il desiderio è lasciato cadere, anche l’infelicità scompare. Il desiderio lo puoi lasciar cadere solo, quando scopri che la divisione, che c’era apparentemente stata dentro di te, è illusoria e dovuta all’ignoranza. Quando sorge quella conoscenza, l’ignoranza scompare, e con essa scompare anche l’infelicità.
… (II.17)

2). È soltanto una divisione psicologica interiore (che uno presume esista) che crea un soggetto dell’esperienza separato dall’esperienza stessa; se non si crea quella divisione psicologica, di conseguenza non c’è contatto psicologico e quindi non c’è esperienza di dolore, di tristezza, come tale. Ma, nel processo in cui gli occhi vedono, quello che vede (il senso dell’ego) sorge e qualcosa salta su e dice, “io vedo”. Nel momento in cui l’«io» (il soggetto) è sorto in te, questo creerà un oggetto. Sto guardando questa sala intera, quando all’improvviso: “Io vedo lui”. Quest’assunzione di un ego s’inserisce attraverso la pura sensazione di vedere, e suggerisce, “io vedo lui”. La vista vede, ma in quella hai creato un’immagine, un pensiero con una forma, e da qui sorgono tutti i problemi.
Mentre l’esperienza della visione continua, è possibile disconnettere questo contatto? È possibile porre fine a questa reazione? È possibile vedere questa relazione come non-esistente ed assurda? Questo accade, quando ti rendi conto che quando gli occhi sono aperti quello che succede è semplicemente vedere – essendo gli occhi dotati della facoltà della vista. Poiché la facoltà della vista è universale, finché ci sarà luce in questo universo ci sarà la vista. Essendo l’azione la vista, questa vista stessa è l’entità che vede. Non c’è uno che vede separato dalla vista. Non è necessario che ‘io’ veda ‘te’. Quando l’io sorge, anche il ‘tu’ sorge, mentre la verità è qualcosa in mezzo.
È facile illustrare questo fatto con un fazzoletto; c’è l’estremità sinistra del fazzoletto e la sua estremità destra. Questo è chiaro, ma c’è solo un pezzo di stoffa che tu chiami fazzoletto e quello è tra queste due estremità. Ma l’estremità non è qualcosa a parte, il tutto è un pezzo indivisibile chiamato fazzoletto. Possiamo tornare a quello stato in cui quello che è chiamato ‘tu’ e quello che è chiamato ‘io’ non sono che due presunte estremità di un’azione pura e priva d’ego, che ha luogo dappertutto?
Sorge prima l’io, poi la vista e poi il ‘tu’? Oppure tu sei già lì, la vista accade e poi all’altro estremo sorge l’io? Qual è esattamente la verità riguardo la semplice esperienza del vedere? Quando questo vedere ha luogo, sorge prima l’io (quello che vede, l’osservatore, il soggetto) – o sorge prima l’oggetto? L’identità del soggetto è indipendente dal pensiero che sorge nel soggetto? O l’identità dell’oggetto è una proiezione del soggetto?
Sia il soggetto che l’oggetto dipendono dal predicato. C’è una cosa sola, l’esperienza in se stessa; c’è una sola cosa chiamata fazzoletto. Quello che era semplicemente uno è in qualche modo stato concepito o percepito come trinità: è assurdo. Cos’è che ti fa vedere tutto questo? Avidyā.
Allo stesso modo, qualcuno ti chiama stolto: è solo una parola, un suono che viene udito, un’esperienza. In qualche modo quell’esperienza, a livello nozionale (ma non nella realtà) viene divisa in “Io sono offeso” o “Quello mi ferisce”. In cui ‘io’sono questo estremo,‘quello’ è l’altro estremo e ‘offeso’ è il centro; se non c’è questa divisione, si tratterà solo di pura esperienza, una parola, che è entrata dalle orecchie ed è stata udita. In quell’esperienza non c’è assolutamente dolore.
Ancora una volta, quando non s’immagina (perché d’immaginazione si tratta), che abbia avuto luogo questa divisione o separazione psicologica tra quella che è chiamata l’esperienza e quello che ha l’esperienza, non c’è contatto e perciò non c’è dolore.
3). Questo è possibile anche riguardo al dolore fisico. La condizione può ancora continuare ad esistere, ma il dolore come tale può cessare; se al dolore fisico si permette di essere solo dolore fisico senza che sia così chiamato o descritto, si prenderà cura di se stesso. Può anche paralizzare un arto, ma resterà solo quello che è, non è necessario che diventi psicologico o personale.
4). Forse la maggior parte di noi si renderà conto che in questo sforzo di evitare l’angoscia e la sofferenza, il nostro modo di vedere la vita cambia in meglio. Uno dei modi migliori di assicurarci che tutti questi principi etici e morali siano adottati nella propria vita, è di capire che da questo modo di comportarsi dipende la nostra felicità. Puoi essere felice se sei gentile con tutti; se ami tutti, sei sempre felice. Una vita moralmente sana è la migliore garanzia per evitare la sofferenza e l’angoscia.
5). Puoi estrarre la cosa chiamata sofferenza, che è indipendente dalla personalità e dalle circostanze? Puoi tirarla fuori completamente ed osservarla così com’è? È qui che occorre una forte concentrazione. Poni tutta la tua concentrazione su questo fenomeno della sofferenza e fai fluire l’energia della mente in quell’unica direzione. (Puoi metterla a fuoco sulla paura, l’odio, o qualsiasi altra manifestazione psicologica.) Sei solo consapevole della sofferenza, è in te. Se io sono consapevole della sofferenza, io e la sofferenza sono due diverse entità o la stessa?
6). Qui proviamo un’altra tecnica. Uso un mantra nella meditazione e lo ripeto mentalmente; quando ripeti mentalmente un mantra, lo puoi udire. Chi lo sta dicendo e chi lo sta sentendo? Poi all’improvviso ti rendi conto che anche tu sei lì, stai osservando entrambi. Il suono emana da qualche parte; qualcuno sta ripetendo questo mantra, qualcuno lo sta ascoltando e qualcuno sta osservando entrambi questi personaggi. Con lo stesso approccio, osservi il fenomeno della sofferenza e dici: “Io sono consapevole della sofferenza”. Bene, se sei consapevole della sofferenza, prova queste due situazioni:
(a) Fermati davanti al fornello della cucina; è caldo, puoi sentirlo, ma perché tu dovresti avere caldo? Se puoi vedere che l’acqua sta bollendo nella pentola, non sei tu che stai bollendo! Così, se puoi osservare quell’angoscia, e diventarne consapevole, sei libero. Questo è un metodo.
(b) L’altro è che mentre diventi sempre più consapevole della sofferenza, all’improvviso diventi uno con essa: non stati soffrendo più, sei la sofferenza. Il fuoco non sente caldo, è caldo. Così, se sei il dolore, non senti più il dolore, diventi uno con esso e la dualità scompare.
In questo modo lo yogi utilizza il dolore che è già sopraggiunto per trovare la radice stessa della sofferenza.

Una caratteristica importante negli Yoga Sūtra è che non c’è la condanna di altri punti di vista, nessuna critica. Un’interpretazione di questo Sūtra può essere molto ampia e includere altri metodi. La sofferenza ci viene incontro senza essere invitata, risolvila quando arriva, ma quando vedi che la  sofferenza si sta avvicinando, evitala con qualunque mezzo puoi. Qualunque metodo adotti – il digiuno, la dieta, asana yoga, pranayama, la preghiera, una cura, la guarigione spirituale – può essere incluso in questo.
Qualunque sentiero tu possa prendere, dovunque l’osservazione o l’inchiesta possa portarti, lo stadio successivo è certo. È ānanda – beatitudine. Questa beatitudine è completamente diversa dal piacere, è anche diversa da quella che normalmente chiamiamo felicità. Quando tutti i disturbi della mente cessano, quando tutte le cose che ci torturano sono scomparse, ciò che esiste è ānanda. Ma c'è un solo problema: nonostante la presenza di ānanda, c’è anche asmitā o l’individualità. “Io” sono consapevole della sofferenza, “Io” mi sono identificato con la sofferenza, “io” sono lo stesso fuoco, non c’è nulla che mi sta bruciando. Quando giungi a questo stadio c’è beatitudine, ma, tu stai avendo esperienza di questa beatitudine, l’«io» o l’individualità c’è ancora; alla fine anche questo scomparirà. (Vedi anche I.17).
Qui viene spiegato che uno non può saltare sulle proprie spalle.


II.18.          prakāśa kriyā sthiti śilam bhūte indriyātmakam
bhogā apavargārtham dŗśyam

   Cos’è l’oggetto e come viene in esistenza? L’oggetto dell’esperienza è di triplice natura - (1) la luce dell’intelligenza, (2) l’attività dinamica, e (3) l’esistenza materiale. Mentre il cosmo esteriore è l’oggetto dei sensi, questi stessi sono considerati come oggetto di esperienza dall’ignorante, in realtà, sia il cosmo esteriore sia l’entità interiore, che ha l’esperienza sono indivisibili dall’esperienza stessa.  Pur essendo così, l’«oggetto» aiuta l’intelligenza a realizzare la sua vera natura con l’esperienza intelligente, ed essere così liberata dall’ignoranza.

Un oggetto può essere quello che è considerato un oggetto esterno - tu, lui; qualunque esperienza fisiologica – il dolore; o un’esperienza psicologica – la sofferenza, l’ansietà. Tutti e tre questi sono oggetti in un modo o nell’altro. Un albero è l’oggetto della tua vista e un dolore nell’occhio è l’oggetto di te. Un’esperienza di tristezza non è al di fuori di te, eppure ne hai esperienza come oggetto.
L’esperienza di dolore è, naturalmente, (1) associata con la consapevolezza, (2) c’è un movimento d’energia e (3) esiste: queste sono le tre caratteristiche di quell’esperienza. Non c’è dolore qui. Questo non vuol dire che qualunque cosa esiste non c’è! E’ molto importante ricordare che lo yogi non sta cercando di sopprimere ciò che esiste, sarebbe una cosa assurda. Ma: c’è uno sperimentatore dell’esperienza, distinto da quell’esperienza, il quale possa dire che quell’esperienza è sua; oppure la verità è l’esperienza e basta?
Queste sono tutte caratterizzate da prakāśa kriyā sthiti śilam.
Prakāśa – c’è una consapevolezza che caratterizza queste tre. Quando dici, “Io ti vedo”, c’è ovviamente un oggetto illuminato. Quando c’è un dolore nell’occhio, c’è ovviamente un tipo di consapevolezza associato con l’organo di senso. C’è una consapevolezza associata con essa anche nel caso di un turbamento psicologico.
Kriyā – c’è ovviamente un movimento d’energia, anche associato alla consapevolezza concernente quell’oggetto; in altre parole, la cosa è dinamica. Anche quando osservi quello che consideri essere un oggetto inerte, c’è un movimento di coscienza tra te e quell’oggetto, e sta facendo qualcosa a te.
Stithi – per il momento sembra essere un fatto esistenziale, innegabile che l’oggetto esiste qui e che tu puoi vederlo, il dolore e lì e tu ne hai esperienza e la paura è lì e tu la senti.
Bhūte – rappresenta gli elementi fisici grossolani che costituiscono l’universo fisico; ma non sono gli elementi fisici soltanto, che costituiscono l’oggetto. L’aspetto sensoriale di tutti gli esseri fisici – che è anche parte del fisico ed è però in grado di distinguersi – è anche necessario. Il gusto sembra essere un oggetto, ma il senso del gusto sulla lingua ha la pretesa di essere un soggetto, pur essendo parte dell’intero organismo fisico.
Il tutto è l’oggetto. (Qual è il soggetto di questo che è l’oggetto!?)

In questo intero concetto di oggetto c’è godimento – bhogā – e anche illuminazione: godimento, se stai ancora dormendo sotto la coperta dell’ignavia, o illuminazione, se il tuo spirito è sveglio e cercando di scoprire cosa c’è dietro tutto questo. La persona ignara che dorme confortevolmente sotto la coperta dell’ignavia è soddisfatta con questo e considera il contatto con l’oggetto come godimento; invece la persona nella quale lo spirito ha cominciato a svegliarsi – che non è pienamente illuminata, ma che si sta risvegliando – può usare la stessa esperienza dell’oggetto per cercare la sua via verso la conoscenza del Sé.



II.19.  viśeşa aviśeşa liňgamātrā aliňgāni guňaparvāņi

   Tali oggetti possono anche essere di diversi tipi o categorie: (1) possono essere speciali - esperienze soprannaturali, (2) possono essere esperienze comuni o di routine, (3) possono avere caratteristiche o segni distintivi, o (4) possono essere sottili, senza alcun segno distintivo: e le loro qualità possono essere a diversi stadi di sviluppo. Semplicemente, l’intero cosmo inclusi il mondo esterno ed il sistema sensoriale interno, è l’oggetto.

Patanjali dice che queste esperienze, che costituiscono l’oggetto possono essere esperienze particolari o comuni; possono avere caratteristiche distintive o possono non averne. Possono essere considerate come cose particolari o meno. “Io vedo te” è aviśeşa, un’esperienza non particolare, perché tutti noi siamo in grado di vederti. “Io vedo una luce blu intorno a te” è viśeşa, un’esperienza straordinaria o particolare. Patanjali non fa altro che i commenti più oggettivi su queste esperienze, non suggerisce che l’una sia superiore all’altra.
Per esempio, vedere una certa forma divina in una visione è un’esperienza liňgamātrā,un’esperienza che ha delle caratteristiche e che è nello stesso tempo un’esperienza particolare. E’ possibile che qualcun altro abbia l’esperienza di essere completamente dissolto nella coscienza cosmica, che non ha assolutamente caratteristiche (aliňgāni). Questa è un’esperienza di un tipo, quella è un’esperienza di un altro tipo e, finché questi sono oggetti di un soggetto, c’è una divisione da qualche parte.



II.20. draştā dŗśimātrah śuddho api pratyayā anupaśyah

   La verità concernente l’entità che vede (il conoscitore) è che c’è solo l’eternamente-puro atto di vedere (conoscenza). Però, sorge una polarizzazione a causa della quale un concetto (che poi diventa il soggetto o conoscitore) sembra vedere (la reazione dei sensi al mondo esteriorizzato - dove ogni esteriorizzazione è risultato della polarizzazione e del conseguente apparente movimento nel soggetto). Un’entità apparentemente indipendente, chiamata esperienza, diventa perciò l’oggetto.

Avendo così spiegato la natura dell’oggetto, Patanjali procede verso quello che io sento essere probabilmente nel cuore stesso degli Yoga Sūtra, la domanda:
 “Chi è il draştā, l’entità che vede, in tutto questo?”
L’oggetto era molto chiaro e perciò quello è stato colto per primo. La seconda cosa che sembra essere molto chiara ed evidente è: “Io vedo te”. La domanda successiva è: “Chi è l’«io» che vede te?”
 Draştā dŗśimātrah, significa che l’atto di vedere o l’esperienza soltanto esiste. Quell’esperienza stessa, desiderando diventare consapevole della propria esperienza, crea una polarità.[1]  In quel puro atto dell’esperienza non c’è né la polarizzazione né la divisione. Gli occhi vedono un’unica visione, che è l’universo e quel vedere è puro senza alcuna divisione.
Se scopriamo che la vista è l’unica a vedere in tutto ciò che è visto, in quella vista non c’è alcun male, è assolutamente pura - śuddho api. Tutte le esperienze – come pura esperienza – sono pure, incontaminate, immacolate. L’entità che vede è pura, l’azione è pura, l’azione sensoriale è assolutamente pura. Perciò l’entità che vede è semplicemente la vista o l’atto di vedere, senza una divisione soggetto-oggetto, e perciò senza alcuna motivazione. Per questo nell’esperienza pura non c’è né piacere né dolore, né virtù né peccato.
Draştā dŗśimātrah: la vista o il vedere soltanto è l’unica verità.
In ogni esperienza non c’è una reale divisione tra chi fa l’esperienza come soggetto e l’esperienza come oggetto: l’unico esempio a cui si può pensare è l’esperienza universale del sonno; uno che dorme profondamente non dice, “Io sto dormendo”, né sa, pensa o sente “Io sto dormendo”. C’è un’esperienza totale, pura ed omogenea; chi fa l’esperienza è inestricabilmente ed essenzialmente non-differente da questa pura esperienza. (Il sonno è qui riportato solo per illustrare l’esistenza di tale pura esperienza, non per suggerire che per questo il sonno sia una caratteristica dell’illuminazione). Nel sonno, tutte le tue buone e cattive qualità, anche quelle meravigliose dormono anch’esse e, quando si svegliano, ci sono un sacco di problemi!
Quello che si pensa sia il soggetto dell’azione non è altro che l’azione o l’evento stesso di vedere o di altre esperienze. L’esperienza c’è, accade, la vista c’è, la consapevolezza c’è.
Nella meditazione, c’è soltanto la pura consapevolezza.
Quando gli occhi sono aperti e vedono qualcosa, solo la vista c’è, quando mangi qualcosa, c’è l’atto del mangiare. Quando parli, c’è l’atto del parlare: il parlare accade; non è, “Io parlo a te”. L’ascolto avviene, non è “io ascolto te”. E’ anche possibile che il dolore accada; in quel momento c’è solo il dolore: dolore come qualcosa senza la parola stessa, senza un concetto e senza una descrizione; non è chiamato dolore, in quanto non c’è un «io» che cerchi il piacere.
In questa maniera, qualunque cosa può succedere, senza creare alcun problema nella vita. Una vita di tale è una benedizione suprema; tutte le virtù descritte nei testi sacri prendono forma naturalmente e spontaneamente in quella persona. Ma le virtù non hanno uno scopo, una motivazione: lui non è gentile, “perché così andrà in paradiso”.
Una tale vita è libera dalle motivazioni e per questo è libera dalla disperazione, dalla paura, dalla speranza (come desiderio, N.d.T.)). Quando non hai una meta da raggiungere, non hai una destinazione: tutte le strade che prendi sono giuste!


[1] Ci sono due bellissime espressioni che ricorrono ripetutamente nello “Yoga Vāsiştha:  “Cos’è la Coscienza Cosmica, cos’è Dio e cos’è ogni cosa?”  e,
“Tra questo e quello è la coscienza, tra quello e questo è l’esperienza”.