Yoga Sutra II. 21, 24


II.21. tad artha eva dŗśyasyā ‘tmā
L’esistenza  o l’ essenza stessa dell’oggetto non è che l’effetto e la sostanza dell’esperienza frammentaria del soggetto, prodotta dalla erronea polarizzazione. Quest’esperienza frammentaria è il contatto con il dolore.
Quest’aforisma suggerisce che l’esperienza, l’oggetto di chi fa l’esperienza, è anche la stessa sostanza.
Tutte le esperienze sensoriali avvengono senza alcuna motivazione. E’ la divisione di quest’esperienza in soggetto e oggetto, in un “io” e un “te” – i due estremi di un fazzoletto – che è ovviamente assurda; ma in qualche modo accade. Se il fazzoletto è uno, come è possibile che abbia due estremi? Ora vedi il fazzoletto, poi, in un batter d’occhio, vedi i due capi. Quando uno diventa consapevole dei due estremi (il soggetto e l’oggetto) invece che del fazzoletto, non c’è più il puro vedere, ma “io vedo te”. “Io-vedo-te” sembra essere incompleto e perciò il soggetto si procura una motivazione. Le idee – che tu sia attraente, bella, brutta, affascinante, che mi piaci, che non mi piaci – seguono tutte l’iniziale (se così vogliamo chiamarla) errata percezione. E’ questa divisione la causa di tutte le esperienze e di tutti i contatti, e il dolore è un’esperienza che nasce dal contatto.
“Io penso che lei è bella”. Qual è la sostanza qui? “Penso”, non è così? Se il pensare non ci fosse, neanche “io” ci sarebbe. Dall’altro lato del pensare, lei è. Cosa intenti con “lei è”? Io penso che lei è. Perciò questa cosa chiamata pensare in qualche modo genera da un lato la cosa chiamata “io” e dall’altro lato la cosa chiamata “lei è”.
Non c’è esperienza senza una divisione: io tocco te, il dito non tocca se stesso; esperienza significa divisione, esperienza significa contatto, contatto significa divisione – i tre vanno insieme. Uno in qualche modo s’immagina diviso e, avendo creato questa divisione immaginaria, viene a contatto con se stesso (che ora considera il proprio oggetto) e con quel contatto ha esperienza di piacere o dolore – non importa quale. Ora vedete che non c’è una distinzione reale tra dolore e piacere, è tutto uno. C’è un solo fazzoletto, perciò come fai a vedere i due estremi? Chi risponderà a questa domanda? (Dalla risposta a questa domanda dipende l’intero yoga della conoscenza del sé!)
Quindi l’esperienza, come esperienza non crea problemi; il pensiero, come pensiero non crea problemi e anche la sensazione, come sensazione non crea problemi. Il problema è la concessione di uno stato indipendente a quello che è parte integrante dell’esperienza in toto e che appare creare una divisione. La divisione stessa è illusoria e perciò non-esistente.
Ora, la realtà o Dio non è assolutamente la causa della sofferenza di alcuno. Quello che è non causa alcuna sofferenza o dolore.  La verità è la pura esperienza. “Non la verità ma la falsità è la causa del dolore”, può essere preso come un postulato. Poiché  quella cosiddetta esperienza è stata soggetta alla falsità, il dolore viene sperimentato. Grazie a Dio è falso e può andar via! Quando si scopre che è falso tutto il gioco ha termine.

II.22.  krtartham prati nastam apy anastam tad anya sadharanatvat   Per colui che ha ottenuto la realizzazione, quando la natura (ir)reale della polarizzazione dell’esperienza è realmente compresa, il contatto con la sofferenza cessa: l’unico modo di evitare la sofferenza è di non essere mai separato da essa (come entità che ne ha esperienza)! Eppure, la potenzialità della polarizzazione (separazione) ed il conseguente contatto con il dolore esiste in altre, circostanze ordinarie. Perciò, persino una persona illuminata può ancora avere esperienza della sofferenza, quando non è nella consapevolezza totale della non-separazione.
Se consideriamo la sofferenza stessa come irreale o falsa e tutte le esperienze pure come nobili, sacre, beate (anche se si trattasse dell’esperienza dell’amputazione di un arto e di una gola che urla) allora è possibile che tutte le pratiche religiose improvvisamente perdano il loro significato. Uno che è arrivato a questa comprensione o realizzazione è libero; ha perso la falsa idea della sofferenza – nel suo caso la sofferenza è cessata. E’ anche possibile che quando si risveglia a questa verità, realizza che questa era la verità da sempre. Anche quando piangeva e si lamentava della sua miseria, anche allora questa era la verità, e non c’è dolore nella verità.
Nel suo caso, il gioco è terminato, ma il mondo intero non è all’improvviso scomparso, perché ci sono altre persone che continuano a creare e proiettare questo mondo di dolore, sofferenza e tristezza. Loro soffrono a causa del loro malinteso, della loro errata comprensione e ignoranza; per loro la tristezza, la sofferenza e l’ignoranza sono reali. Il saggio, che è stato illuminato, entra in questa apparente diversità e sente, se pur vagamente, i problemi delle altre persone in modo da aiutarli a risolverli.



II.23.  sva svāmi śaktyoh svarūpopalabdhi hetuh samyogah

   Quando la polarizzazione dell’esperienza è avvenuta, il desiderio del soggetto di diventare consapevole della sua propria natura e dei suoi volontari o involontari poteri d’azione causa o agisce come legame o contatto tra il soggetto e l’oggetto. (Qui il “soggetto” è il concetto frammentato del sé, e l’“oggetto” è sia l’esperienza dei sensi che l’oggetto esterno dell’esperienza).
Cercherò di spiegarlo con un esempio: se ti cade un dente, la gengiva sanguina; è lo stesso sangue che circola nella bocca e nella lingua. Ma ora che (in qualche modo) è stata creata una divisione tra il sangue all’interno della lingua e quello che ci sta sopra, la lingua sente il suo sapore salato. Il sangue all’interno della lingua c’è ancora e forse la lingua lo percepisce anche, ma siccome c’è totale unità, non c’è esperienza del suo sapore e neanche della facoltà del gusto della lingua. Quando invece il sangue ci scorre sopra, c’è una divisione, poi un contatto ed un’esperienza del sapore del sangue, così come un risveglio della facoltà di avere esperienza.
Come ha origine questa divisione? Si tratta ancora di te: puoi ritirare tranquillamente la tua coscienza dalla bocca dove tutte queste cose stanno succedendo e sederti sopra la tua testa ad osservare? Vedi una piccola divinità che presiede sulla gengiva che dice, “fa male” ed un’altra che presiede sul senso del gusto che dice, “sento il sapore del sangue”. E’ un solo cervello, un solo organismo. Questo è precisamente quello che accade nelle nostre relazioni: siamo un solo organismo, ma siccome non ce ne rendiamo conto, quando una persona soffre, qualcun altro è felice; è terribile, ma è così.
Se sei momentaneamente immerso in uno stato di beatitudine, completamente assorto in un’esperienza di piacere, hai una forte carica energetica. Quest’energia sembra manifestarsi solo in situazioni estreme, che senti col cuore e l’anima. Vi do come esempio una situazione che mi è capitata. Una signora mi stava accompagnando ad un incontro nella sua Volkswagen, quando una ruota andò a finire nel fossato al margine della strada. Lei gridò: “Oh, arriveremo tardi al programma!” Usciti dalla macchina, tirammo fuori la ruota dal fosso! Normalmente non ci saremmo mai azzardati a sollevare una macchina né ci saremmo riusciti: Da dove è venuta fuori tutta quella forza? Da quello che potremmo chiamare l’Ordine Cosmico, ma in ogni caso, dura solo per un attimo.
L’azione spontanea è quella che avviene da sola, non meccanicamente, non per abitudine, ma quando l’autore non sorge nell’azione, quando il conoscitore non sorge nella conoscenza, quando l’autore dell’esperienza non sorge nella pura esperienza. Quando accade spontaneamente è pura, l’io non vi è per niente coinvolto. Riuscimmo a sollevare la macchina; ma se avessimo provato in un altro momento, ci saremmo quasi spezzata la schiena!
Quando di un’esperienza dici: “E’ stato bellissimo, voglio ripeterla per avere lo stesso piacere”, non c’è più. Il sé che si sforza di sperimentare i suoi propri poteri crea una divisione e volendo contattarli di nuovo, non ci riesce.
E’ la pura śakti (energia cosmica) che lo sta facendo, quando uno si arrende totalmente a quella śakti (cioè, quando l’io non c’è) allora quello che deve accadere accade. Quando dici: “E’ stato stupendo, ho sentito la śakti salire, voglio sperimentarlo ancora”, non succede più niente. Quando la polarizzazione viene forzata, invece di rimanere quel tutto, stai cercando di percepire il tuo proprio potere, la tua propria intelligenza (o anche la tua ignoranza), allora scompare!
La stessa cosa ti succede quando ti siedi a meditare; ti siedi e ripeti il tuo mantra. Stai ascoltando la ripetizione mentale e, se il suono del mantra è abbastanza forte dentro di te, può annullare tutti gli altri suoni. Il vento fischia, ti distrae, ma il maestro dice: “Ascolta il tuo mantra totalmente con il cuore e l’anima e il vento non ti disturberà più”. Non senti più il vento, ma poi un sospetto si va insinuando: “Si è fermato il vento, o sono in uno stato di concentrazione profonda?” Come cerchi di scoprire il tuo potere di concentrazione? Cercando di avere esperienza della non udibilità di quel suono, ma qui “non udibilità” vuol dire la possibilità di udire il suono del vento. Stai cercando di udire, per assicurarti di non udire e qui ricadi nella trappola.
L’intelligenza è lì dentro di te, è quell’intelligenza che si manifesta come ciascuna esperienza; l’io, chi fa l’esperienza non è per niente necessario per tutto questo. Quando questo soggetto dell’esperienza non sorge come entità indipendente e quando l’esperienza si è dissolta in pura esperienza, c’è beatitudine e non c’è alcuna divisione.
Quando ne vuoi avere esperienza non vuoi arrenderti a questa pura esperienza; è proprio quando vuoi sederti lì per gustarla di persona che i problemi si presentano.


II.24.  tasya hetūr avidyā

   Ovviamente, tutto questo è dovuto all’ignoranza della verità spirituale o dell’unità. L’ignoranza soltanto è la causa della polarizzazione, cioè della fittizia separazione, che è la sola causa del desiderio di diventare consapevole di “un’altro” e del contatto “dell’altro”.
Tutti i problemi sorgono da avidyā, l’ignoranza; per esempio è avidyā che chiede, “Com’è possibile che in questo fazzoletto vedo due estremi?” Non so se si possa verbalizzare una risposta per questa domanda; uno si rende conto che la non comprensione dell’unità crea i due estremi o, da un altro punto di vista: suggerire i due estremi è chiamata non comprensione dell’unità. [Solo Kŗşna fu tanto audace da affermare, in un verso grandioso, che tanto la conoscenza quanto il suo offuscamento vengono da Dio. (Questo è molto difficile è va preso con molta cautela). Se vuoi essere nella conoscenza sii nella conoscenza, se vuoi nasconderti sotto la coperta, fai pure.] Noi siamo solo consapevoli che questa divisione e la conseguente esperienza di dolore, di piacere  (e tutto il resto), hanno una base comune che è la non comprensione, l’illusione, l’immaginazione; in una parola, l’ignoranza.
Uno che è anche vagamente consapevole delle attività dell’ignoranza, all’improvviso scopre che comunque non è possibile liberarsene, per quanto ci si impegni; non si può vivere con essa, non si può liberarsene e, finché c’è, la si sente presente. Qualunque cosa si fa, lo si fa vicino alla sua ombra e nella sua ombra. Se fai una cosa buona, è l’ombra che la fa o che ne trae vantaggio. Finché questo corpo va avanti, anche l’ombra va avanti. Come trattare con essa?