Yoga Sutra II. 25, 26


II.25.  tad abhāvāt samyogā ‘bhāvo hānam tad dŗśeh kaivalyam
   Quando quell’ignoranza è dispersa, la polarizzazione (separazione, divisione o frammentazione) ed il conseguente congiungimento o contatto dell’entità che ha esperienza con l’esperienza, non ha più senso ed è abbandonata. Questa è la liberazione per il conoscitore, che è il puro atto dell’esperienza o la coscienza omogenea indivisa che sola esisteva. La liberazione non è isolamento o indipendenza da un altro, ma unione nel senso di non-divisione.
Come superare questa sequela di dolore o afflizione psicologica, che ha la sua origine nell’ignoranza, nella mancata comprensione? Quando uno si rende conto che tutti questi sorgono dalla non-conoscenza di sé, può esserci una sola soluzione: la conoscenza di sé; nient’altro può essere di alcuna utilità.
Patanjali lo pone molto chiaramente – tad abhāvāt. Quando la confusione  della non conoscenza non c’è e di conseguenza non c’è la divisione illusoria o polarizzazione, non c’è alcun contatto con il dolore; non c’è contatto con alcun oggetto di esperienza. Immediatamente tutti i pregiudizi svaniscono e c’è amore, armonia, unità e pace. Hai bloccato il dolore al suo sorgere, prima che s’impadronisse di te, la radice stessa della sofferenza è distrutta.
Ma l’intero universo palpita di un’energia, che si manifesta nella maniera sua propria, e per questo la pura esperienza e la pura espressione si esplicano in questo mondo senza creare alcun problema o difficoltà a nessuno. E’ la concettualizzazione di un’esperienza come piacere o dolore e di un comportamento come buono o cattivo che crea i problemi. Quando la divisione non è più creata, il contatto non c’è più e quando il contatto non c’è più, c’è il puro vivere: l’esperienza soltanto esiste. Allora l’esperienza rimane da sola, sola nel senso che è un tutt’uno: il puro vivere è visto come soggetto e oggetto, ma senza la divisione di soggetto e oggetto; allora c’è la libertà. L’autore dell’esperienza è liberato, emancipato dall’influenza della polarizzazione.
E’ quella libertà che viene indicata nella filosofia del Raja Yoga; non è libertà da un altro o dal dolore, ecc., ma libertà totale: libertà dal desiderio di avere un’esperienza e quindi liberazione del vivere stesso.
Questo potrebbe ben essere la conclusione degli Yoga Sūtra, perché il secondo ed il terzo sūtra nel primo capitolo definiscono lo yoga come: “Yoga è il controllo delle modificazione della mente”, e “Allora l’entità che percepisce, rimane come unica realtà e come se stessa”. L’entità che vede o  fa l’esperienza, rimane nella sua vera forma. Nel secondo capitolo la vera forma è rivelata come la pura esperienza stessa. Quando avidyā o l’oscurità dell’ignoranza cessa, allora questo puro atto del percepire o avere esperienza viene liberato dalla concettualizzazione, dalla polarizzazione. Se puoi realmente e sinceramente affermare, dal più profondo del tuo essere che questo senso d’ignoranza o “non so” è scomparso e che non c’è confusione nella tua mente, allora sei illuminato.

II.26.  viveka khyātir aviplavā hano ‘pāyah
   In breve, solamente la costante ininterrotta consapevolezza di questa verità è il mezzo per porre fine  all’ignoranza e al suo seguito.

Viveka significa saggezza, consapevolezza, attenzione o vigilanza. Aviplavā significa ininterrotta. La costante, ininterrotta consapevolezza di questa verità è viveka. Viveka è l’unica maniera in cui gli ostacoli possono essere rimossi. Perciò Patanjali dice, “Viveka kyātir: ottieni questa saggezza, questa consapevolezza e fa in modo che sia ininterrotta”. Quando diventi ottuso, la tua attenzione è persa e in quello stesso momento perdi la saggezza acquisita; s’interrompe o viene abbandonata, qualunque ne sia il motivo, allora sei immediatamente sopraffatto dalla non conoscenza della tua identità, dall’oscurità, e l’ombra (l’ego) torna di nuovo. Questa interruzione stessa è l’ombra o l’ego.
La vigilanza di Swami Sivananda consisteva nel tenere sempre accesa la luce interiore. Finché c’è la luce, l’oscurità non può sussistere: per quanto debole, la luce è in grado di annullare le tenebre; non puoi sradicare l’oscurità, devi illuminarla, non puoi sradicare questa nozione di “io”, ma puoi proiettare un flusso di luce su di essa e vedere che cos’è. Questa luce interiore deve ardere costantemente, ininterrottamente: questo è l’unico modo di superare l’ignoranza.
Insieme all’infinito c’è anche l’ignoranza: l’infinito cela infinite potenzialità in ogni momento; c’è un’esperienza d’illuminazione che va oltre l’esperienza dualistica, ma in quella esperienza pura, sorge anche il desiderio di separarsi dall’esperienza come suo fruitore, di trattenerla. Il desiderio sorge, perché è anche inerente ad ogni atomo di esistenza: quella che è consapevole di questo è la saggezza (viveka). Quando quella saggezza è costante e ininterrotta, la divisione non sorge; quando quella divisione non sorge non c’è contatto e, quando non c’è contatto non c’è l’esperienza dualistica. C’è il puro vivere che è beatitudine, c’è pura azione che è amore: c’è l’unità.
Se non c’è divisione, non c’è né dolore né piacere; anche quando non c’è divisione e quindi non c’è dolore o piacere, c’è ancora la consapevolezza. La consapevolezza, l’esperienza e l’azione sono inerenti in ogni atomo dell’esistenza, in ogni cellula del tuo corpo. La pura azione è chiamata amore; la pura esperienza in cui non c’è alcuna divisione è beatitudine - che la beatitudine provenga da un cancro o da un’incoronazione – perché è al di là del piacere e del dolore.
Tutti i problemi sorgono dalla non comprensione dell’unità, e questo ci riporta davanti al problema: cos’è la non-comprensione? Come può sorgere, se ogni atomo d’esistenza e ogni cellula del proprio essere è satura di consapevolezza? Non credo che qualcuno abbia la risposta: occorre guardare dentro e vedere cos’è che è consapevole di questa non-comprensione.
Quando questa pura comprensione o saggezza è ininterrotta, la tua vita è libera dalla sofferenza; vivi (però consapevolmente) come nel sonno profondo: tutto ciò che accade a te, accade nella totalità, senza che sorga un soggetto separato dell’esperienza. Quando si parla, si parla, non c’è un “io” che parla. Quando lavori, il lavoro accade: tu e il lavoro siete diventati uno, perciò non c’è un “tu”.
Solo quando viveka è ininterrotto si può dire che gli ostacoli sono stati rimossi. Spesso ci comportiamo come il rasoio: ci radiamo e immaginiamo che il problema sia stato risolto, ma non lo è! La mattina dopo ti svegli e sta di nuovo lì. Questo è il problema costante nella nostra vita e nella nostra pratica di yoga: pensiamo che il problema sia scomparso ma non lo è. Il nostro solito amico e nemico: “Pensavo”, “Pensavo che fosse passato”, “Pensavo di essere illuminato”, può entrare e interferire nella nostra vita in un milione di modi (e la prossima frase è fondamentale) “senza che noi ne siamo consapevoli”. Infatti il nostro non esserne consapevoli è chiamata ignoranza e qui la solita scusa, “non lo sapevo” non è una scusa.