YOGA SUTRA II 29

II.29. yama niyamā ’sana prānāyāma pratyāhāra
          dhāranā dhyāna samādhayo ’ştāv angāni

   Disciplina, osservanze, posizione, esercizio della forza vitale, introversione dell’attenzione, concentrazione, meditazione e illuminazione (unione) sono le otto membra dello yoga o la realizzazione diretta dell’unità. Perciò queste membra dovrebbero essere tutte praticate insieme, intelligentemente, in modo che le impurità di tutte le membra fisiche, vitali e psicologiche possano essere eliminate.
A questo punto, dopo aver spiegato quasi per intero la filosofia dello yoga, Patanjali dà dei suggerimenti pratici esponendo quello che è ufficialmente conosciuto come Raja Yoga. La sequenza è molto chiara, bella e di grande valore. Sappiamo tutti fare molte cose ma, quello che sembra non sappiamo riconoscere è che ogni azione ha una filosofia ed una motivazione: quando dimentichiamo questo, c’è confusione.
Aşţanga significa otto membra; non è inconsueto anche per grandi maestri e insegnanti di yoga usare un’altra terminologia: gli otto passi. Vederli come passi o gradini, però, può dar luogo ad una leggero fraintendimento che viene poi condensato in una dottrina; quando sali una rampa di gradini, li percorri uno dopo l’altro, così l’insegnamento (da quel punto di vista) è che vi sono otto gradini sui quali ti arrampichi uno dopo l’altro: yama, niyamā, āsana, prānāyāma, pratyāhāra, dhāranā, dhyāna e samādhi.
Invece di considerare questi otto come gradini, Patanjali li caratterizza come anga: membra di una sola entità. L’intero yoga è uno, questi otto sono solo membra. Quest’entità chiamata yoga con le sue otto membra dobbiamo farla nascere ogni giorno nel suo insieme, in modo che non possiamo dire: “Ora sto praticando la purezza e, dopo aver praticato la purezza passerò a praticare il contentamento, poi le posizioni yoga, ecc.” A quel punto sarai morto!
Ad ogni modo, se vedi che questo metodo è composto di otto membra vedi anche che un solo membro è inadeguato, imperfetto e che otto imperfezioni messe insieme non possono condurre ad una perfezione. Un bambino non è l'assemblaggio di otto membra: è una persona, un essere completo. E’ possibile che alcune membra crescano più rapidamente di altre, ma tutte devono esserci sin dall'inizio. Se questo è il nostro approccio, vuol dire che già dal primo giorno che pratichiamo qualcosa che vada sotto il nome di yoga, ci assicuriamo che queste otto membra ci siano, intatte, insieme e che ciascuna sia caratterizzata dalla luce della saggezza, che è indivisibile; e questo deve toccare ognuna di esse. Allora tutto acquista bellezza e significato e niente è meccanico.

Dhāranā, dhyāna e samādhi insieme sono chiamate samyama. Non sono tre azioni indipendenti, ma un movimento ininterrotto: samyama è questo movimento. Il prefisso “sam” spesso indica perfetto o corretto, perciò samyama è quando yama diventa consolidato, pieno, totale. (v. III.4)
Yama è il primo ramo dello yoga; è stato descritto in vari modi, come restrizione, autocontrollo, regolazione, santità e disciplina. Come disciplina significa studiare la tua natura, il trampolino delle tue azioni. Alcune spiegazioni ci dicono che se non diventi fermamente stabilito in yama non puoi intraprendere la pratica dello yoga. Se però accetti la precedente descrizione di samyama, quando sei perfettamente stabilito in yama, sei illuminato. Dall'altro punto di vista, yama è solo possibile se anche tutte le altre membra dello yoga sono praticate insieme.
Niyama non significa restrizione ma disciplina; possiamo chiamarla virtù. Yama e niyama non sono tanto cose che devono essere fatte, ma verità che devono essere comprese. Sono semplici, se uno sinceramente s’impegna a comprendere che esse sono di per sé la fedele manifestazione di una vigorosa ricerca della verità. Non sono discipline imposte su di noi da altri, non sono auto-imposte e neanche misure di autocontrollo nel senso che “sopprimo le mie inclinazioni o i miei bisogni naturali”.
La non violenza, l’aderenza alla verità, la purezza, ecc. richiedono che l’ego (le cui attività sono conosciute come violenza o spirito di dominio) sia attentamente osservato. La disciplina non è qualcosa che devi fare con grande sforzo, ma è la comprensione della verità. Quando la verità è compresa, la verità stessa agisce.
Kŗşna ha rivelato una grande verità nella Bhagavad Gita:
“Tu sei il tuo proprio amico e il tuo proprio nemico. Se vivi una vita di autocontrollo sei tuo amico, se manchi di autocontrollo sei il tuo nemico.”
 Qui non c’è costrizione, ma un’indicazione della verità. Così, l’autodisciplina nello yoga dev’essere una scoperta dello studente stesso, non uno sforzo di coltivare le virtù elencate con i titoli di yama e niyama. Il fatto stesso che ci sia bisogno di coltivarle indica che non ci sono già e che forse ci sono le qualità opposte! Qualunque sforzo verso questa coltivazione consuma la propria energia.
Perciò il maestro suggerisce che mentre pratichi le āsana, osservi il comportamento del corpo: qualunque posizione yoga stai praticando, l’intero corpo partecipa, l’intelligenza interiore riporta equilibrio e sollievo. Similmente, nella meditazione scoprirai l’intelligenza al di là delle limitazioni del corpo e della mente (pensieri ed emozioni) e delle limitazioni dell’individualità. Quello che è al di là di questi è la pura intelligenza o coscienza, la quale è indivisibile. L’intelligenza che funziona nel corpo non è divisa; allo stesso modo l’intelligenza che funziona nell’universo non è divisa.
Quando questa verità è realizzata direttamente, yama-niyama e tutto il resto dell’autodisciplina segue senza sforzo. Funziona in questo modo: quando vuoi far sorridere la faccia di un bambino, gli fai solletico sotto il piede, non gli tiri la guancia. Quando realizzi l’unità con l’intera vita, la virtù o l’autodisciplina è naturale.
Quando uno realizza che l’ignoranza della propria vera identità può solo essere annientata o illuminata dalla conoscenza del sé (l’illuminazione stessa dell’ignoranza di sé è la conoscenza di sé) cosa cerchi di fare quando pratichi le āsana o quando trattieni il respiro nel prānāyāma? Nel quarto capitolo degli Yoga Sūtra c’è una bellissima risposta:
“Tutti i vostri sforzi di coltivare le virtù e di disciplinarvi attraverso la pratica di āsana, prānāyāma, ecc. sono come le azioni di un buon contadino o di un giardiniere.”
Il giardiniere toglie gli ostacoli che impediscono alla pianta di crescere. La luce interiore brilla sempre ininterrottamente, ma sembra esserci un impedimento al suo funzionamento; quando lo yogi coltiva le virtù, sradica i vizi e si disciplina praticando āsana, prānāyāma, ecc., non fa altro che rimuovere gli ostacoli.
C’è sempre stata una disputa tra insegnanti e studenti di yoga riguardo alle qualificazioni del praticante di yoga. Quale viene prima, yama-niyama (discipline etiche) o dhyāna (la meditazione)?  E’ possibile praticare o anche imparare la meditazione se uno non è pienamente stabilito in yama-niyama? Dall’altro punto di vista, è possibile stabilirsi in yama-niyama se uno non impara a meditare, a guardare dentro, a osservare se stesso e a riconoscere i trucchi della mente ribelle? Allora, quale viene prima? Gurudev Swami Sivananda diceva: “Entrambi”.