II.31. jāti
deśa kāla samayā anavacchinnāḥ
sārva bhaumā mahā vrataṃ
Questi
fattori di supremo (perché naturale) autocontrollo o ordine sono universalmente
invariabili in chiunque aspiri all’illuminazione. Essi vengono compromessi solo
quando c’è disarmonia e contraddizione come , per esempio, tra la propria testa
- che cerca l’ordine - e il proprio
cuore - che cerca il concomitante del disordine, cioè il piacere. Essi non
sono affetti o modificati da distinzioni
di nascita (classe, ceto, ecc.), nazionalità
o posizione geografica, epoca (antica,
moderna, ecc.) o di circostanze (professione, stile di vita, avvenimenti,
ecc.).
II.32.
śauca santoșa tapaḥ svādhyāye ’svara praṇidhānāni
niyamāḥ
Alla luce dell’intelligenza che illumina lo stile di vita, sorgono le
seguenti osservanze: purezza del corpo,
della mente e dell’ambiente, contentamento,
fuoco psichico che semplifica la vita e purifica il cuore, studio di sé
o vigilanza costante, e resa alla (o
adorazione della) onnipresenza interiore.
NIYAMA
Niyama comunemente, suggerisce una vita regolata, non solo interiore, ma che abbraccia anche la vita esteriore (se si può davvero dividere la vita in qualcosa di esterno e qualcosa di interno).
I cinque niyama sono śaucha (purezza), santosha (contentamento), tapas
(austerità o semplicità), svādhyāya
(studio) e Isvara pranidhāna (resa
totale a Dio).
Non cercare di coltivare questi niyama,
ma osserva per vedere se sono lì in te. Se ci sono, stai andando nella
direzione giusta, se non ci sono, c’è qualcosa che non va da qualche altra
parte; perciò qualcosa dev’essere fatto per rettificare la causa. Devi scoprire
dove sorgono gli opposti di queste qualità e non manipolarle e nasconderle;
coprire le nostre mancanze non serve. Per esempio, una mia amica voleva
smettere di fumare ma non lo fece e, ogni volta che veniva a trovarmi usava una
specie di spray ai chiodi di garofano –
così quando veniva e parlava io sentivo sia il tabacco che i chiodi di
garofano. Invece dovremmo cercare la causa e quando questa è corretta, il problema scompare.
Śaucha
Śaucha nel linguaggio più semplice è pulizia del
corpo, della mente e dell’ambiente. E’ la purezza che può abbracciare sia il
tuo sé interiore che l’ambiente; quando il tuo essere interiore è puro e pulito,
non so se potrà neanche tollerare la mancanza di pulizia esteriore. Dire che il
tuo cuore è puro e si libra nella beatitudine trascendentale mentre il tuo
corpo, i tuoi vestiti e la tua stanza sono sporchi, non mi sembra molto ragionevole.
Alcuni hanno spesso commentato che alcuni dei grandi yogi erano sporchi o,
almeno, così dicono le scritture. Sì, ma in quelle descrizioni si nascondono
anche dei suggerimenti che quello yogi, che appariva come rozzo, con i capelli
sporchi e arruffati, emanava una fragranza celestiale. L’imitatore di un yogi
non può emanare quella fragranza!
Se provi capirai: un giorno siediti a meditare con i piedi sporchi, il
giorno successivo lavati solo i piedi ed il terzo giorno fatti prima un bagno e
vedi tu stesso gli effetti; capirai la differenza. Fa parte della tradizione
indiana lavarsi la bocca, le mani, le gambe e il viso dopo i pasti. Se provi ne
scoprirai i benefici, troverai che questa pratica migliora la digestione e
l’assimilazione e sembra avere un effetto rilassante sui nervi, perché l’acqua
contiene il prāṇa e prendi il prāṇa dall’acqua; ti senti
rigenerato dopo il contatto con l’acqua.
Così tanto per la pulizia esterna. Per quanto riguarda la pulizia
interna, prima di tutto il corpo dev’essere puro. La pratica delle āsana aiuta ad eliminare le tossine dal
corpo fisico ed i blocchi al libero fluire del prāṇa . Poi la mente dev’essere pura; i pensieri negativi non
devono sorgere nella mente; i tuoi motivi ed i tuoi sentimenti devono essere
puri.
Perciò la pulizia non è soltanto lavarsi le mani, lavare i piatti e
tenere in ordine il proprio ambiente, ma abbraccia l’intera personalità: il
corpo, la mente, il cuore e l’anima devono essere puri.
Santosha
L’esser contenti, come chiave d’accesso alla pace mentale, è così
universalmente riconosciuto che non è necessario elaborare questo punto; non
esser contenti è indice della presenza di un pesante velo d’ignoranza. Essere
contenti non è un consiglio di disperazione, non è frutto della pigrizia né
l’azione del benestante pigro e indolente; quel tipo di contentamento è
inutile. Nessun modo meccanico di accontentarsi è di alcun uso – nessuna
maniera meccanica di fare qualunque cosa è di alcuna utilità!
Perciò il contentamento non è semplice: è l’assenza del
desiderio, che è la radice di ogni sofferenza è la causa della scontentezza;
per praticare la qualità del contentamento occorre essere consapevoli del sorgere della scontentezza in
ogni momento. Chi, se non una persona egoista, sarà tormentato dallo scontento?
L’insoddisfazione è il seme degli alberi della cupidigia, del furto, della
violenza e della falsità: tutti fattori già trattati in yama. Per cui il contentamento è un corollario alla pratica dei
cinque yama.
Il contentamento può sorgere nel tuo cuore solo se hai fede
in Dio. L’accontentarsi di quello che si ha è stato contestato dai materialisti
e anche mal interpretato dagli aspiranti spirituali. L’errore dei materialisti
è nella supposizione che è l’ambizione che porta al successo e alla prosperità:
non è l’ambizione ma il lavoro che porta successo e prosperità; l’ambizione
spesso agisce come influenza distraente. Senza l’ambizione, il lavoro fatto
come proprio dovere può portare un successo anche maggiore; mentre l’ambizione
ti allontana e dissipa le tue energie, l’esser contenti ti fa rivolgere dentro
e conserva le tue energie. Perciò il contentamento è anche il segreto per un
reale successo. L’errore dell’aspirante spirituale invece è che estende il
contentamento alla pratica dei suoi doveri, mentre si applica solo alle cose
che possiede: esser contenti con quello che si ha è yoga, esser contenti con
quello che si fa è pigrizia!
Nello Yoga Vāsiṣṭha viene detto che il contentamento è una delle
quattro sentinelle alla porta dell’illuminazione; perciò non si tratta
dell’atteggiamento negativo di evitare il proprio dovere ma di quello positivo
di aspirare alla liberazione dalle catene dell’ignoranza. Esser contenti porta
alla pace mentale e alle più grandi realizzazioni.
Il Tao-Te-King dice:
Non c’è misfatto più grande della ricerca di quello che l’uomo desidera,
Non c’è misfatto più grande della ricerca di quello che l’uomo desidera,
Non c’è miseria peggiore del non
essere contenti,
Non c’è calamità più grande dell’indulgere nell'avidità.
Perciò, chi sa come essere contento sarà sempre felice.
Non c’è calamità più grande dell’indulgere nell'avidità.
Perciò, chi sa come essere contento sarà sempre felice.
Tapas
Tapas vuol dire una vita molto semplice, l’austerità,
l’ascetismo, l’auto-purificazione, la penitenza; significa anche bruciare – un
ardore psichico o psicologico interiore. Qualunque pratica o stile di vita che
porti a bruciare le impurità psicologiche (saṁskāra)
è tapas. Può anche voler dire
coltivare una sempre maggiore consapevolezza; per esempio, se vieni insultato,
osservi la natura del male che senti dentro di te e della tua reazione, invece
di ricambiare l’insulto.
Swami Sivananda diceva:
“Tollera l’insulto, tollera l’ingiuria:
tra le pratica spirituali, (sādhana) questa è la più elevata”.
Vuol dire che, mentre vieni insultato, osservi te
stesso. Uno deve davvero scoprire l’importanza di quest’insegnamento nella
propria vita; se per esempio sei arrabbiato, stai ribollendo dentro e si genera
una grande quantità di calore: dov'è questa rabbia e che cos’è? Non dovresti né
sopprimerla né esprimerla, ma osservarla.
Devi forse sottoporti a questa tortura per avere
una parola di lode dagli altri? o speri che combattendo questa battaglia dentro
di te andrai in paradiso? Nessuno di questi due atteggiamenti ma lo fai perché vuoi
vedere direttamente la verità riguardo a questa rabbia. Quindi, cosa fai in
pratica?
Per alcuni minuti o mezz'ora rimani
seduto e osservi questo terribile tornado dentro di te; mediti, usando la
rabbia stessa. Tutta l’attenzione è messa a fuoco su questo bollore dentro;
osservi questa forte agitazione interiore finché non vedi direttamente: “Questa
è la rabbia”.
Neanche allora la battaglia è finita: stai ancora da una parte, con lo
sguardo rivolto su te stesso, come se non si trattasse di te. Quest’ira è
dentro di te, il “te” è dentro l’ira. Qual è la relazione tra te e quest’ira?
Come mai riesci ad osservarla pur essendo questa dentro di te e tu dentro di
essa? Rabbia è solo una parola che hai imparato da qualcuno: all'improvviso,
l’“io” che stava osservando questo, scompare e, insieme all’“io” anche la
rabbia si dilegua, perché non c’è nessuno che la chiami rabbia. Non c’è un io
in relazione al quale essa possa essere descritta come rabbia. Allora stai
praticando il vero tapas. Non importa quale sia l’emozione (che venga chiamata
ira, paura, ansia, passione o con qualsiasi altro nome) porterà comunque la sua
fragranza – che è la conoscenza di Sé. Se puoi trattare con questo una sola
volta, l’avrai risolto per tutta la vita.
Perciò, se uno è intelligente può usare il piacere, il dolore, l’onore, il
disonore, la lode o il biasimo come sentiero per il samādhi.
Svādhyāya
Mentre si pratica un tipo di ricerca spirituale o tapas mentale, i maestri ritengono
essenziale una comprensione intelligente della verità, e per questo raccomandano
svādhyāya – studio delle scritture e studio
di sé. Abbiamo bisogno di una guida, altrimenti è possibile che, sottoposti a
varie esperienze, pensiamo di star imparando dalla vita ma ne ricaviamo un
messaggio sbagliato. E’ qui che ci rendiamo conto della grande importanza sia
delle scritture che di un insegnante, che insieme formano quello che io
chiamerei una strada ferrata. Questi non ci porteranno fino alla meta,
tantomeno ci spingeranno fino lì, ma se abbiamo l’energia e l’applicazione, ci
forniscono il senso della direzione. Le scritture ci mantengono sul sentiero e
ci prevengono dal leggere delle lezioni false dalle esperienze della nostra
vita. Ci sono tre aspetti diversi di svādhyāya:
(1). Il significato o
la definizione ortodossa di svādhyāya
è di studiare un capitolo di una scrittura ogni giorno. Può essere fatto come
routine, finché lo spirito della ricerca non sarà risvegliato; ogni giorno
dobbiamo esporci allo spirito delle scritture, per non lasciare che la mente si
riempia solo di tutto il resto. Per esempio, se permettete alla mente di
pensare alle guerre, ai conflitti, tutto il vostro essere diventa una guerra e
voi diventate il punto di partenza del prossimo conflitto; quando leggete o
ascoltate queste cose diventate depressi e vi preoccupate, poi aprite lo Yoga Vāsiștha o la Bhagavad Gītā e leggete: “Tutti
dobbiamo morire prima o poi”. Quel pensiero cambia il vostro atteggiamento
ed il vostro punto di vista sulla vita. Lo studio delle scritture è di vitale
importanza per la nostra vita
quotidiana.
Se questo veramente v’interessa, è meglio far seguire la
lettura da un breve periodo di contemplazione, perché quello che avete studiato
ha una certa rilevanza nella vostra vita: potete ricatturare quei valori nella
contemplazione?
(2). Un’altra interpretazione ortodossa è la ripetizione di
un mantra, (o
japa) che deve anche far parte della
vostra attività quotidiana. Mentre continuate a ripetere il mantra, inevitabilmente la vostra
coscienza assume una certa forma sottile; se continuate a ripetere il mantra,
creando dentro di voi una certa forma: in che modo questa pratica rientra nello
studio di sé? Se vi concentrate sulla natura, la composizione, il perché ed il
come dell’immagine sonora che si crea dentro di voi, allora quello diventa svādhyāya, altrimenti è una ripetizione
meccanica. Swami Sivananda diceva: “Se ripetete un mantra o praticate delle posizioni yoga, del prānāyāma o quello che chiamate meditazione, meccanicamente e senza
comprenderne lo spirito, quell’azione acquista un valore negativo”.
(3). Svādhyāya può
anche significare meditazione, che deve anche essere parte della vostra
attività quotidiana. Quando meditate dentro di voi – usando un mantra, un’immagine o un pensiero, una
forma astratta o l’assenza di forma – questo è svādhyāya.
Se questi tre ci sono, essi ammorbidiscono (se non demoliscono
completamente) i problemi ai quali siamo soggetti in questo mondo; usati nel
giusto spirito, possono redimerci da questi fattori.
Iśvara pranidhāna (Resa totale a Dio)
Cos’è Iśvara? Iśvara viene anche abbreviato in Iśa – E’. Quello che è, è Dio. Tutto ciò che è, è Dio – non quello che appare essere
o che è soggetto a cambiamento, perché quello che è mutevole non si può
considerare come “essere”. Se potete giungere fino a quello, quello è Dio. Prendiamo
come esempio lo spazio. Non si può distruggere lo spazio, non potete dividerlo,
bruciarlo o cancellarlo; non c’è niente di più immutevole e permanente dello
spazio, perciò lo spazio può essere considerato come Dio. Ciò che è, dev’essere
illimitato, infinito, permanente; ciò che è, ed è dappertutto in ogni momento,
è Dio: Quello è Iśvara.
Se questo Dio è in ogni luogo ogni momento, cosa si deve
arrendere , e chi deve arrendersi? Un bicchiere d’acqua è un oggetto, quindi potete
prenderlo e darlo a me. Ma cosa darete a Dio? E’ l’ignoranza che viene resa a
Dio. Di cos’è fatta quest’ignoranza e chi la sostiene? L’“io” è quello che
ignora l’onnipresenza di Dio e che la nega in ogni sua azione. Allora qual è la
cosa che dev’essere ceduta? Quell’ignoranza, nient’altro, e chi si arrende?
Quello che nasce da quell’ignoranza, che perpetua quell’ignoranza, che si
aggrappa a quell’ignoranza e la sostiene affermando continuamente “io sono
questo, tu sei quello, ecc.”
E’ possibile per uno su un milione comprendere che Dio è
onnipresente e che l’ego ignorante è di per sé il solo ostacolo. Se non siete
in quella categoria, allora arrendevi all’immagine o alla vostra statua di Dio,
a vostro padre, a vostra madre o a vostra moglie, basta che quella resa sia
totale e che la mente non faccia domande. Se la vostra resa è reale allora quella
statua (o chiunque sia a cui vi arrendete) è tanto valida come qualunque altra
cosa al mondo, perché l’onnipresenza di Dio la riempie, qualunque cosa sia…
Quando c’è la resa siete liberi: quell’intelligenza è in
grado da quel momento in poi di prendersi cura totalmente di tutto quello che
accade e di assicurarsi che questo “me” non sorga di nuovo.
E’
anche possibile arrendersi ad un guru vivente e fare esattamente la stessa
cosa, ma potrebbe esserci la preoccupazione. “Se è un falso guru e mi fa
sviare?” “Falso” va bene, “sviare” va pure bene, fa sviare “me” è il problema.
Se vuoi conservare quel “me”, allora non c’è la resa; se c’è la resa, allora è
il resto della frase che non ha alcun
senso.
Arrendersi
a Dio non deve far sembrare Dio come una specie di poliziotto armato; non è
quello che s’intende per resa. Pranidhāna
è una resa non passiva ma dinamica; in quella resa l’“io” non dice, “Bene, mi
sono arreso a Dio, ora lui proteggerà me e tutto quello che è mio”. Tornando
all’analogia dell’oceano, quella goccia d’acqua è una sola cosa con l’oceano e
la totalità dell’oceano determina quello che essa farà. Può stare nella
profondità dell’oceano, sulla cresta di un’onda o può essere sbattuta contro
uno scoglio: appare doloroso solo se tu vuoi sentire, “io sono indipendente
dalla totalità e la totalità deve rispondere alle mie preghiere” – il che vuol
dire che non c’è alcuna resa.
Quando
Patanjali suggerisce che la conoscenza di sé (la totale eliminazione
dell’ignoranza di sé) si può ottenere attraverso la resa totale a Dio, non sta
insegnando una tecnica; la resa totale – in cui ciò che si arrende è solo
l’ignoranza – non costituisce una tecnica, ma è una delle discipline
fondamentali. Non puoi ottenere la conoscenza di sé se non c’è questa costante
e dinamica resa al divino – dove il
divino è la conoscenza. L’ignorante assunzione dell’esistenza di un sé
dev’essere costantemente offerta in sacrificio (per così dire)
all’onnipresenza.
La
conoscenza, che è il sé, è velata dall’assunzione che il me sia un’entità indipendente
e, quando la luce della conoscenza risplende, questo viene visto come
non-esistente.
Il
sé come energia fluisce verso il basso, il sé come conoscenza fluisce verso
l’alto ad incontrare nel cuore la grazia discendente e si arrende completamente
- nel senso che si fonde interiormente -
in maniera tale che non c’è più una volontà chiamata “la mia” volontà e,
notate attentamente anche questo, non c’è più una volontà chiamata “la volontà
di Dio” o “la tua volontà”. Le espressioni “Sia fatta la tua volontà” e “Sia
fatta la volontà di Dio” sono usate solo perché c’è ancora qualcuno che può
usare quelle parole, che può usare queste formule; ma in realtà non c’è neanche
quella. Se non c’è “la mia volontà”, non c’è neanche “la tua volontà”.
Solo
se questo è compreso nel suo giusto spirito, possiamo apprezzarlo. E’ per
questo che in alcuni grandi santi può apparire occasionalmente della vanità, ma
nel loro caso, a quel punto non c’era niente chiamata “la mia volontà” o “la
volontà di Dio”: non c’era divisione, per cui, se quella persona ha usato la
parola “io”, è Dio che parlava attraverso quella bocca. (Anche questo è solo
dal nostro punto di vista – dal suo
punto di vista non c’è neanche questo).
Non
è possibile descrivere quello stato: quello è Iśvara pranidhāna – dove
l’ego non dice “io voglio” o “io non voglio”; quando questi due sono lasciati
cadere realizzi che l’azione fluisce senza l’interferenza del pensiero o
dell’ego. C’è una resa dinamica, che semplicemente implica che questa
intelligenza interiore è viva, per assicurare che non vi siano motivazioni
personali in atto. Lasciate che l’azione fluisca come il sangue scorre nelle
vostre vene, senza alcuna motivazione.
Se
c’è Iśvara pranidhāna
si è in samādhi costante. Il samādhi può essere interpretato, da un certo
punto di vista, a significare una chiglia stabile, uno stato mentale
completamente equilibrato, che è anche possibile, attuabile, se si è capaci di applicare questo alla
propria vita quotidiana. Questo vuol dire che in ogni situazione di difficoltà
puoi immediatamente riaffermare questa resa: il fatto stesso che devi
riaffermare la resa vuol dire che l’ego si è presentato di nuovo! Allora ti
rendi conto che la difficoltà della situazione difficile è portata anche a
causa della presenza dell’ego. Perciò, portare equilibrio implica
necessariamente il riconoscimento che l’equilibrio era stato disturbato perché
il “me” all’improvviso aveva alzato la cresta.
La
resa a Dio non può essere spiegata ma, se siete attenti, potete intravederla.
Quando la vostra coscienza espande e alla luce di questa coscienza realizzate,
“questo è Dio, quello è Dio; quello che è considerato buono è Dio, quello che è
considerato non tanto buono è Dio; quello che è vero è Dio, quello che è
considerato come non vero è Dio; quello che è sacro è Dio, quello che è considerato
come profano è Dio”, allora qualcosa si sta dissolvendo dentro di voi. Quello è
proprio l’ego – che era stato costruito dalle vostre idee, dalla vostra educazione,
cultura e tradizione. Tutte queste cose che sono state messe insieme,
assemblate a formare il vostro ego – i pregiudizi, l’orgoglio e tutte le vostre
idee sul bene e sul male – si stanno gradualmente dissolvendo.