II.30. ahimsā satyā asteya brahmacaryā aparigrahā yamāh
Quando la luce dell’intelligenza o la
consapevolezza della verità illumina la sostanza mentale, l’ordine psicologico
prevale e si manifesta attraverso le seguenti forme
di naturale autocontrollo o disciplina:
Non-violenza, percezione di ciò che è o
verità, non accumulare, naturale movimento dell’essere totale
nell’essenza cosmica omogenea, e assenza
di cupidigia. (Il quarto articolo si riferisce anche specificamente alla
continenza o castità).
YAMA è il primo degli otto
rami dell’aşţaňga yoga e si suddivide in cinque virtù: ahimsā (non-violenza), satyā (aderenza alla verità), asteyā (non appropriarsi di cose che
appartengono ad altri) brahmacharyā
(continenza) e aparigrahā (assenza di
avidità).
Yama significa anche
autocontrollo, e il dio della morte ha lo stesso nome: Yama. Se uno mira davvero a vivere una vita illuminata deve anche
essere preparato ad abbandonare un tipo di vita governato dall'ignoranza.
Quando la morte giunge in maniera naturale non c’è nulla di drammatico: uno
semplicemente smette di respirare! La morte porta via la vita dal corpo
placidamente, senza traumi. Yama, nel
suo significato di autocontrollo o virtù deve ugualmente avvenire senza sforzo,
dev’esserci una maturità interiore; quando l’intero essere è pronto la virtù
avviene.
Cos’hanno a che fare queste qualità meravigliose, nobili e positive
con il dio della morte? Con la loro pratica stai portando la “morte” in ogni
momento della vita quotidiana: l’intelligenza, la luce interiore diventa
naturalmente consapevole del minimo ostacolo che sorge (o sembra sorgere) nella
tua vita; allora quell’ostacolo scompare prima di poter raccogliere forza ed
impulso. Quello è yama e quello stesso
è l’autocontrollo o l’autodisciplina.
Yama è autocontrollo in una
maniera molto bella e sottile, non come soppressione o negazione di sé: volgere
l’attenzione su se stesso è la chiave. Se, per esempio, c’è il forte desiderio
di bere un bicchiere di vino (mentre, per qualunque motivo, non dovresti
berlo), l’attenzione fluisce verso il bicchiere di vino sul tavolo e c’è
tensione. Invece di decidere se bere o no quel vino, è possibile semplicemente
osservare e vedere cosa sta succedendo dentro di te, cos’è questa cosa chiamata
desiderio? Allora l’attenzione comincia subito a fluire verso se stessa: c’è
quello che Patanjali chiama nirodha.
La sete, che è naturale per un organismo vivente, non andrà via, ma il forte
desiderio scompare, la tensione non c’è più. Allora, sia che tu prenai un bicchiere di
vino o un bicchiere d’acqua, accadrà senza sforzo.
Quando vuoi sapere che cos’è la bramosia, come sorge, come funziona e
di che cos’è fatta, l’attenzione fluisce verso se stessa e in quel preciso
momento quel forte desiderio perde la sua forza vitale; in questo modo sviluppi la forza
di volontà, ma di un tipo diverso: non cedi al desiderio né lo sopprimi, ma
l’osservi. Se soccombi alla bramosia sei finito, se la sopprimi, questa
apparentemente scompare, per il momento. In entrambi i casi, non hai capito che
cos’è quella bramosia e così, la volta successiva essa torna sotto un’altra
forma e ti coglie mentre sei distratto.
L’unico modo per non farti cogliere di sorpresa è diventare
consapevole dell’origine, dell’esistenza e della funzione di questa cosa
chiamata bramosia; quando facciamo questo lavoro, il desiderio scompare e ciò
che è naturale accade senza la nostra volontà. La vita di una persona tale è
assolutamente naturale ed è, perciò, libera dalla tensione e dalla confusione.
Lì un’intelligenza diversa funziona; potete chiamare quell’intelligenza Dio,
potere divino o come preferite. Quello è autocontrollo di un tipo diverso, è
quello è il tipo di disciplina che s’intende quando Patanjali descrive yama negli Yoga Sutra.
Questo tipo di disciplina non può in alcun modo essere definita o
codificata con una serie di comandamenti o proibizioni; questi non hanno mai
funzionato veramente; invece, se possiamo essere consapevoli in ogni momento,
questa filosofia può essere viva in ognuno di noi. Quella consapevolezza crea
un’azione che è indefinibile, che dev’essere scoperta di momento in momento
senza che sia codificata e pietrificata.
Quando tutte le speranze (le speranze non sono altro che desideri), le
aspirazioni, le paure, le ansietà e le motivazioni cadono morte, quella che
sopravvive è questa incredibile intelligenza (potete chiamarla come volete:
anima, jīva, ātma o il Dio interiore) che è immortale, che splende nella sua
propria luce – senza alcun offuscamento, interruzione o distrazione. Quando
essa illumina costantemente le sorgenti nascoste delle nostre azioni, quello
che accade è la virtù o yama, e
l’ombra chiamata male non sorge. Perciò la virtù è lo stato in cui
l’intelligenza brilla costantemente e rende impossibile il sorgere di alcuna
motivazione; se, a causa delle abitudini del passato alcune motivazioni,
speranze, paure e ansietà sorgono, questo yama
le stronca sul nascere. Quello che accade alla luce di quell’intelligenza è la
virtù.
Se intrattieni la speranza che questa virtù ti condurrà in paradiso o
ti darà una prossima vita migliore, allora non stai morendo, e non è virtù. La
virtù che ha una motivazione legata a questo mondo o ad una vita futura, non è
virtù. Quando la morte è portata nella nostra vita quotidiana, la prima cosa che
è completamente eliminata dalla nostra vita è la speranza (intesa come
desiderio): la speranza crea un’entità chiamata domani, il futuro, anche se
questo potrebbe non esistere.
Qui c’è un parallelo con Sūtra
III,4 che descrive dhāranā, dhyāna
e samādhi (concentrazione,
meditazione e stato di supercoscienza) come samyama.
Samyama è la perfezione, mentre yama è lo stato preparatorio – l’uno è
la preparazione, l’altro è la perfezione. Se la sostanza è la stessa, vuol dire
che anche yama comporta consapevolezza
e vigilanza interiore o saggezza; se questa saggezza non c’è, non fai altro che
circondarti di cose da fare e da non fare, regole e proibizioni e l’ego continua a
fiorire e crescere sempre più forte. Quella che serve è la saggezza, che
diventa consapevole (vagamente all’inizio e perfettamente poi) che quello che è
chiamato “io” o “me” è forse inesistente.
Perciò nello stato di samyama
c’è la consapevolezza diretta che il sé, come entità separata, non esiste.
Nello stato di yama la stessa realtà
non è vista così chiaramente, perciò fino a che punto ahimsā, per esempio, è praticata nella tua vita, dipende da quanto
chiara è la verità della non esistenza del sé. Se la saggezza interiore è
sviluppata, essa stessa determina
cosa dev’essere la tua vita.
Ahimsā
Ahimsā non è qualcosa che
possa essere dimostrata o definita positivamente; perciò è posta al negativo “a-himsā”. Ahimsā significa l’assenza totale di himsā, che a sua volta significa, non solo violenza fisica,
molestia o recar danno, ma anche l’intenzione di nuocere a qualcuno. Odiare,
essere invidioso, geloso, sgarbato o crudele (sia con le parole che con lo
sguardo) è himsā.
Ahimsā è normalmente
tradotto come non-violenza e non-aggressione in pensieri, parole e azioni, cioè
non far del male o insultare nessuno. Questo sembra essere semplice e facile
ma, se osservi la mente, ti accorgi che nel novantacinque per cento dei casi
sta escogitando come mostrare di
praticare ahimsā, senza farlo
veramente! Questo è quello che facciamo in ogni momento quando ci interessiamo
alle meravigliose virtù su descritte. Queste non sono virtù che si possono
acquisire, perciò se vuoi essere non aggressivo, per esempio, non puoi
introdurre la non-aggressione come un elemento del tuo carattere. Fai un’altra
pratica e questa sboccia come non-aggressione – può essere japa (ripetizione regolare del mantra
o di un nome di Dio), meditazione, o qualcosa che è totalmente scollegato da
quello che è il tuo stile di vita.
Ahimsā non può essere
ridotto a proibizioni e comandamenti – questi non hanno alcun valore. Ogni
volta che quest’argomento è sollevato, in genere nell’ora delle domande e
risposte, qualcuno mi chiede: “Swami, hai
parlato di ahimsā , di non far male a nessuno in pensiero, parola ed azione:
che devo fare di quelle zanzare che vengono a disturbarmi durante la
meditazione, devo ucciderle o no?” La risposta è: “Non hai ancora smesso di mangiare la carne e sei così preoccupata di
questi piccoli insetti?”
L’ideale,
ovviamente, è di assicurarci che neanche per negligenza (molto meno
volontariamente) distruggiamo anche la più piccola delle creature di Dio – ma
l’ordine più saggio è di cominciare con tutto quello che è più vicino a casa
nostra, più alla nostra portata, invece di pensare agli estremi.
Quante volte vediamo persone che adorano gli animali
e sono pieni di apprensione per un piccolo verme, ma odiano il loro prossimo e
lo trattano con meno rispetto. Quanto spesso vediamo persone che sfruttano i
loro dipendenti e poi fanno donazioni spettacolari (a scopo pubblicitario) ad
un orfanotrofio. E’ in riferimento a questi che il Tao-Te-King dice:
“Fate a meno della benevolenza e
mandate via la rettitudine, allora i figli torneranno al loro dovere verso i
genitori ed i genitori torneranno ad amare i figli”.
Esaltare l’amore e la carità porta spesso all’ipocrisia; non
promuovere l’amore e la carità porta all’egoismo e alla durezza di cuore.
Vi sono delle situazioni in cui essere morbidi, dolci e gentili può
essere himsā. Per esempio, se tuo
figlio sta facendo qualcosa che disapprovi, come reagisci? Se non fermi un
bambino che si sta comportando male, stai promuovendo il male; a parte tutto,
stai sopprimendo le tue emozioni. Perciò, con amore supremo, forse dovrai essere
egoista e castigare quel bambino.
Quello che ahimsā coinvolge
è la costante, ininterrotta vigilanza nella quale c’è una pronta attenzione che
evita himsā.
La non-violenza per quanto concerne la
struttura sociale, è ristretta solo al non far del male agli altri, non
picchiare, non uccidere; ma la non-violenza nel senso spirituale è una sottile
avventura interiore che porta alla conoscenza di Sé. E’ possibile che uno
conduca la propria vita senza mai far del male ad un altro e nello stesso tempo
senza essere lui stesso ferito? La definizione: “Non ferire in pensiero, parola o azione”, non dice che non devi
arrecare danno a qualcun altro o ad altre persone, ma che non devi arrecare
danno ad alcuno in pensiero parola o
azione.
Cosa dire di se stesso? E’ possibile
che sopprimiamo la nostra ira quando veniamo insultati o feriti e che ci
congratuliamo con noi stessi per aver praticato ahimsā, ma stiamo facendo violenza a noi stessi! Possiamo pensare di
aver imparato ad amare il nostro “nemico”, che è sicuramente un’ipocrisia, oppure
che “sarà Dio a punirlo per questo”, che è un’altra forma di violenza! Se la
mia stessa vita ti disturba, devo gettarmi in un lago? Se per amor tuo mi getto
in un lago - con lo scopo di promuovere la felicità di un corpo, sto punendo un
altro corpo!
Che virtù c’è in quell’azione? E’
possibile che anche in quel caso ci sia violenza o avversione in me, nella
mente, nel cuore, nell’ego; quell’avversione, invece di fluire verso quel corpo, fluisce verso questo corpo - che è mio – e invece di
indebolire o annullare l’ego lo rende molto forte. Sopprimendo l’ira ho fatto
del male a me stesso; è questa la definizione di ahimsā? (Non sto suggerendo di rivalersi, quello è peggio). Invece
di punire lui, sto punendo questa cosa chiamata “me” e in quella intelligenza
cosmica che è in ogni luogo (e quindi sia in lui che in me) c’è stata
un’agitazione: l’intelligenza cosmica diventa consapevole di un’agitazione,
perciò quella non è ahimsā.
Se qualcuno ti dà l’appellativo di stolto
puoi sentirti offeso e, una volta che ti senti offeso, terrai quella ferita
dentro per sempre. Per quanto tu voglia mascherarla, dopo dieci o quindici anni
può darsi che venga fuori sotto forma di maldicenza da parte tua o come qualche
altra forma sottile di violenza: non hai dimenticato e quella è violenza. Perciò,
quel cuore che è ferito è violento.
E’ possibile che vivi in maniera tale
che non senti alcuna violenza e non ne arrechi mai ad altri? Se non ti senti
mai ferito, allora non sai neanche come ferire gli altri. Forse è questo che
s’intende per ahimsā.
Qui la non violenza prende una forma
molto bella e delicata; se si realizza che l’io o il senso dell’ego è solo
un’ombra gettata su quest’intelligenza, quell’io non può essere ferito – è impossibile
ferire un’ombra. Non sarai per niente ferito quando realizzi che quello che
viene ferito è solo l’ego, che è solo l’immagine che tu hai di te stesso,
un’ombra che è prodotta dalla tua propria ignoranza.
Tu sei quello stolto che viene ferito; eppure, se sei un
vero ricercatore, impegnato nella scoperta di quest’ombra dell’ego, devi
mentalmente ringraziare quella persona che ha messo il dito sullo stolto. Il
tuo scopo è scoprire l’ego e lui ha fatto in modo che l’ego reagisse! Ora puoi
vedere l’ego che reagisce e puoi lavorarci sopra. Se ti senti ferito e ti
consideri un’aspirante spirituale, sei insincero, non sei onesto con te stesso.
C’è una via d’uscita da tutto questo?
Come sai di essere non violento o non aggressivo nei tuoi pensieri? Vi prego di
ricordare che questa disciplina non è la disciplina di un monaco, di un asceta
o di qualche persona singolare, ma è da applicarsi ad ognuno, in tutte le
circostanze; se è così: cos’è che viene ferito? Se la luce interiore splende
sempre ininterrottamente, essa non viene mai ferita, perché nel momento in cui
il pensiero “mi sento offeso” sorge, gli viene tagliata la testa. Quello è lo
stato di perfezione.
La non-violenza, oltre a non ferire, è
essenzialmente la virtù di non essere feriti, e la virtù di non essere feriti è
la virtù di non avere un’immagine di sé. Quando l’immagine di sé è
completamente sradicata dal cuore, allora sei amore, sei non-violenza e
qualunque azione proceda da quel cuore, da quella mente e da quel corpo sarà
buona.
E’ difficile coltivare “cosmeticamente”
questi yama; per esempio, se vuoi,
puoi far mostra di non violenza, puoi reprimere l’aggressione che senti,
morderti la lingua, usare parole dolci, ecc., e in questo modo fare violenza a
te stesso. L’approccio dello yogi è diverso; quando è provocato da un insulto o
da un danno lui studia (questo è il significato di “disciplina”) il fastidio
interiore e quello che reagisce alla provocazione. La luce interiore comincia a
chiedere: “Cos’è quest’ira?” Lui è così impegnato a studiare il fenomeno
psicologico dell’ira che non ha tempo di arrabbiarsi. (Allo stesso modo con il
desiderio, l’avidità la paura, la gelosia, ecc.). Lo yogi lavora su se stesso e
il risultato è una rivoluzione interiore. Finché uno non realizza che l’io come
entità separata è inesistente e che c’è un’unica vita (queste sono due facce
della stessa medaglia), ahimsā non è
possibile; le due cose devono accadere simultaneamente.
La vera ahimsā o non-violenza in pensiero, parola ed azione e nella verità,
è possibile solo simultaneamente all’illuminazione. Perché il desiderio di
ferire scompaia completamente dal tuo cuore, devi imparare come osservare il
sorgere delle emozioni e a rimuoverle da quel punto stesso. Se sei in grado di
fare questo, stai meditando. Quando sei spiritualmente maturo e pieno d’amore,
allora la virtù accade senza alcuna lotta interiore. Questa è sia meditazione (dhyāna) che disciplina (yama-niyama) sulle quali Swami Sivananda
insisteva; è naturale e senza lotta, profonda e permanente.
Perciò ahimsā diventa possibile quando c’è la meditazione e promuove, a sua
volta, la meditazione. Ahimsā purifica
il cuore e la mente e fa in modo che yama
diventi samyama.
Satya
Satya è la verità. Quello
che dite dev’essere vero, piacevole e benefico. La verità non è dire quello che
avete voglia di dire; per esempio, se qualcuno vi chiede, “Cosa pensi di me?” e
voi rispondete, “Penso che sei brutto, sei uno stupido”, potete anche pensare
di essere stati molto veritieri, ma siete offensivi e sgarbati. Non è questo
che s’intende per verità.
Satya può voler dire essere
veritieri nel parlare: questa è un’impresa ardua, perché ci sono occasioni
nelle quali potremmo dover dire delle bugie. Dovete avere l’abilità e l’audacia
di dire una bugia, e nello stesso tempo essere onesti e sinceri, perché non vedete
niente di buono nell’essere disonesti: la disonestà dev’essere scomparsa da voi,
senza che ne siate neanche consapevoli. Quella è la virtù: avete visto la
verità, per quanto momentanea sia stata quella visione, e quella visione ha
eliminato i vizi dalla vostra personalità; è questo che s’intende, ma generalmente
quella virtù, invece di essere una roccaforte che vi aiuti in questa marcia,
diventa una prigione. Siete imprigionati nell’osservanza di una virtù, non
potete che “essere” in un certo modo e per questo l’“io” acquista di nuovo
importanza. Vedete il pericolo qui? Non è che lo yoga vi dà la licenza di
essere cattivi, ma quando la virtù diventa importante significa che l’ego è
ancora importante: “Devo essere visto come una persona virtuosa.” Per quale
motivo? Perciò, come potete vedere, anche la virtù dipende dall’aver almeno
intravisto la verità. Non è un primo passo, ma è parte del tutto; è un ramo
dell’intera struttura dello yoga.
Le scritture descrivono come in talune occasioni, quello che non è
vero diventa vero è quello che è vero diventa non vero. Se restiamo impigliati
sul dire la verità come disciplina in senso ristretto, allora non solo perdiamo
di vista la totalità della verità, ma falliamo anche in quel limitato dire la
verità, perché la visione si è ristretta e non c’è la visione interiore.
Come potete riconoscere la verità? Quello che riconoscete è la verità? o è anch’esso scelto dalla vostra opinione? Voi avete una quantità di modelli
già immagazzinati dentro di voi e quello che fate è cercare una conferma di
quei modelli; che voi siate buoni a cattivi, chi giudica? Il vostro standard.
Chi ha messo quel modello dentro di voi? Voi stessi o i vostri nonni. Ancora
una volta, quella è una tradizione o un’opinione che è totalmente estranea alla
verità. Perciò il concetto della verità potrebbe dover subire dei drastici e
rivoluzionari cambiamenti dentro di noi, prima che possiamo anche solo tentare
di decidere qual è la verità.
Per esempio, se qualcuno vi dice che un tale è una persona santa e che
dovreste andare ad avere il suo darśan (visione),
la verità è che nella sua opinione
quella persona è santa e dovreste avere il suo darśan: voi non giungete ad alcuna conclusione a riguardo. Venire
a delle conclusioni è una cosa pericolosa – la mente si chiude è la ricerca
della verità è persa.
E’ possibile che non giungiate ad alcuna conclusione su nessuna cosa?
Questo significa essere in grado di distinguere tra quella che è un’opinione e
quella che è la verità. Se questo viene vissuto (non applicato o solo praticato
come un esercizio nella vita quotidiana) vi conduce allo stadio successivo: “Se
questa è una mera opinione, dove si forma e poi: qual è la verità riguardo ad
essa?” Un’opinione sorge dal tuo stesso pregiudizio. Se stai continuamente cercando
la verità e se sei capace nello stesso tempo di sapere, “Questa è solo un’opinione, non è la verità”, quella stessa è la verità. E’ allora che diventi capace di procedere per
gradi dalla mera disciplina verbale alle più elevate discipline spirituali. Il
fatto stesso che tu realizzi, “Questa è la mia opinione”, ti evita di
esprimerla lì dove non c’è bisogno che sia espressa, dove farebbe del male.
Quando quello che stai per dire non è veritiero, piacevole e benefico, dì
qualcos’altro (v. Bhagavad Gita, XVII,15).
Perciò satya richiede una
costante ricerca della verità, il riconoscimento della distinzione tra fatto e fiction, verità e opinione – non solo
nel tuo parlare, ma nei tuoi pensieri, nelle tue azioni e nella tua vita intera.
Allora la mente diventa sempre più trasparente.
Uno che persegue questa ricerca viene a trovarsi di fronte ad alcune
verità impressionanti riguardo la mente; c’è la realizzazione che tutto quello
che la mente concepisce ed esprime è formato da ingannevoli, false opinioni.
Togliendo uno strato dopo l’altro della mente e dei suoi pregiudizi, vi
renderete conto di come le opinioni si formano a causa del samskāra (impressioni, tendenze risalenti ad un passato anche
antecedente la nascita).
Perciò satya non è solo dire
la verità, ma essere devoto al vero, non essere sviato dalle vŗtti (v. sutra I.2: le modificazioni
apparenti della mente, che cambiano di momento in momento). La realtà è pura
intelligenza; avvicinarsi a quell’intelligenza è satya e allontanarsene attraverso le vie secondarie delle vŗtti è seguire l’irreale. Quella è la
verità; uno che vive questa verità è un vero aspirante.
E’ la verità in te che ti permette di riconoscere la verità, e la
riscoperta della verità in te è la meditazione. Senza la meditazione non puoi
conoscere quella che è la verità, senza la meditazione non puoi sapere cos’è la
non-violenza. Per questo ahimsā e satya sono discipline universali, molto
vicine tra loro.
Asteya
Il terzo degli yama è asteya – una
sintesi tra contentamento, austerità e carità. La traduzione letterale di asteya è non-rubare: sembra di scivolare
nella banalità. Discutevamo di ahimsā
(non ferire e non essere feriti) e di satya
(vivere nella verità, parlare il vero ed esprimerlo in pensieri parole ed
opere). Queste sono qualità molto elevate, che richiedono intelligenza,
integrità, amore, coraggio e grinta; e poi ecco, quasi fuoriposto, non rubare!
Kṛṣṇa dice nella Bhagavad Gītā che se uno
non condivide con i bisognosi le cose che tende ad accumulare – cibo,
abitazioni, vestiti, ecc. – è un ladro. Puoi indossare più vestiti di quelli
che ti puoi mettere addosso? Il corpo stesso c’insegna una lezione
importantissima: nessuno al mondo può mangiare più di quanto lo stomaco può
contenere. Un verso del Bhagavatam dice che quello che puoi mangiare adesso ti
è permesso possedere: se mangi di più starai male. Il corpo c’insegna anche che
il massimo spazio di cui hai bisogno è lo spazio in cui ti puoi distendere e il
massimo dei vestiti è la quantità che può coprire il corpo. Tutto il resto è
proprietà rubata, accumulata da questa coppia di forze: speranza e paura, che
sembrano governare ogni giorno la nostra vita. Lo yogi dice semplicemente:
“Osserva questo fenomeno”.
C’è un altro approccio: qualunque cosa hai acquisito viene dalla
terra; il corpo, il cibo, le case, le macchine, i vestiti, tutti i metalli ed
il legno vengono dalla terra; perciò posso riconoscere che quando sono nato non
ho portato niente con me e che tutto quello che chiamo “mio” adesso, viene
dalla terra.
Asteya significa anche non
trattenere e non accumulare cose che sono carenti. Prendere più di quanto hai
bisogno dei beni del mondo significa essere avidi! L’accumulo, anche di ciò che
sembra essere essenziale alla vita, è distruttivo. Perché siamo avidi, perché
accumuliamo? Vi sono due motivazioni o presupposti: prima di tutto pensiamo che
vivremo per tanto tempo; secondo, pensiamo che il potere (chiamato Dio) che
esiste ora fornendoci il nutrimento oggi, in qualche modo morirà prima di noi,
perciò abbiamo bisogno di un conto in banca. Queste due insieme sono le
motivazioni dell’avidità. Sono la speranza e la paura del futuro che ci rendono
tutti ladri.
Come conosciamo la misura dell’avidità? Pensiamo che vogliamo solo le
nostre necessità, ma cosa significa “le mie necessità”? Se l’intelligenza è
costantemente sveglia, c’è un’incessante inchiesta (se questa non c’è,
l’intelligenza dorme). C’è questa costante inchiesta, eppure i vecchi samskāra
o schemi abituali di vita continuano; ad ogni passo torni un po’ indietro. E’
inutile dire “sto migliorando” o “non sto migliorando”; questo ramo c’è e si
sta sviluppando con il tempo di cui ha bisogno.
Ad ogni modo, né gettare tutto via né trattenere hanno alcun
significato, a meno che la luce interiore non percepisca che queste due
premesse sono false. Quando la luce interiore vede che entrambi questi
presupposti sono erronei, allora il desiderio di accumulare cade via. Non lo
spingi, perché quando lo spingi via, chi lo spinge via è un altro desiderio:
“Ora abbandono tutto, in modo che posso avere…” E’ proprio questo che devi
lasciar cadere! Quando c’è la luce interiore, queste cose non sorgono – e c’è asteya.
Kṛṣṇa, in un’enigmatica e semplice
affermazione nella Bhagavad Gita, dice: “Mangia
con moderazione, dormi con moderazione, fa tutto con moderazione” Cos’è
essere moderati? Quella che è la mia
moderazione può essere la tua fame!
Quell’intelligenza che non è adombrata né interrotta da speranza, paura, ansia
e così via, da sola è il fattore che decide; quell’intelligenza è capace di
decidere senza l’inferenza del pensiero o del sentimento, della speranza o
della paura. Uno che comprende questo manifesta in sé la virtù del non rubare.
Brahmacharya
La quarta delle restrizioni è brahmacharya,
che significa letteralmente “quando l’intera consapevolezza interiore fluisce
costantemente verso la verità, verso ciò che è, verso Dio, verso Brahman”. Questo è difficile e perciò
alcuni santi ne restrinsero il significato; essi si chiesero: “Cos’è che
distrae l’attenzione di una persona più d’ogni altra cosa? Il sesso opposto”. Allora interpretarono brahmacharya come continenza, castità.
Questo è senza dubbio uno dei suoi costituenti, ma brahmacharya significa molto più di questo.
Brahmacharya è anche parte
della ricerca della verità, significa che la mente si sta muovendo
costantemente nell’infinito (Brahman),
verso l’infinito, costantemente alla ricerca di Brahman: ancora una volta, questo stesso è meditazione.
Quando la domanda, “Cos’è la verità, cos’è questo?” arde nel proprio
cuore, è allora che, tanto la verità quanto brahmacharya
sono possibili. Si dice che lo yogi che è devoto alla verità diventa
silenzioso; ogni volta che vuole dire qualcosa, c’è il pensiero, “Come so che è
vero?” Questo accade anche con brahmacharya
nel senso di castità. Quando la tua mente, il tuo cuore ed il tuo intero essere
sono costantemente assorbiti in questa ricerca della verità, verso l’illuminazione,
allora il desiderio non sorge e la continenza avviene. Al contrario, sopprimere
tutte queste emozioni è pericoloso perché è violenza, non è verità e non c’è
brahmacharya.
Aparigrahā
Il quinto degli yama è aparigrahā, che
vuol dire assenza di cupidigia, non accettare doni dati con cattivo
intendimento ed eliminazione dell’avidità.
Aparigrahā
nella traduzione comune è non ricevere – non accettare o desiderare quello che
appartiene ad altri. Mentre con asteya
ti è permesso avere quello di cui hai realmente bisogno, ti è permesso
guadagnarti da vivere e puoi tenere nel frigorifero quello di cui hai bisogno per
domani mattina, in aparigrahā quello
che è indicato è che non ricevi proprio nulla; la persona che pratica asteya, per esempio, non ruba, ma se
qualcosa gli viene dato, l’accetta.
Nella Bhagavad Gita è detto: “Lo yogi è soddisfatto con quello che gli
giunge senza che lui lo desideri”; ma qui Patanjali oltrepassa anche quella
definizione: “Non accetti più neanche
quello”. Questa è assenza totale di avidità; prima abbiamo detto lavora per vivere e qui diciamo lavora
per vivere. Questi due sono
assolutamente importanti: non sentire che non hai bisogno di lavorare, perché qualcuno
penserà alle tue necessità; piuttosto guadagnati da vivere. (Nella società
moderna abbiamo così ben modificato il sistema economico che sappiamo benissimo
come appropriarci di quello che appartiene ad un altro in maniera molto legale:
lo chiamiamo business!)
Se adottate l’attitudine di acquisire
prima la visione interiore ed in quella saggezza vedere che l’io non esiste,
allora anche asteya e aparigrahā appaiono come grandi virtù.
Il benessere di questo corpo è tanto
importante quanto il benessere di quel
corpo; nutrire questo corpo è tanto
importante quanto nutrire quel corpo.
Il metodo masochistico di dare agli altri e restare senza per se stessi è anch’esso
non-yogico. Ancora una volta qui l’io vuole asserire se stesso, sentirsi superiore,
sentirsi come un santo e orgoglioso di quello che sta facendo. Quando l’io è
visto come non-esistente, tutte queste virtù si manifestano naturalmente.
Dire che devi stabilirti in queste
virtù, prima di poter anche iniziare la pratica di un’āsana è mettere il carro davanti ai buoi e poi correre davanti a
questi. Uno che non sviluppa la consapevolezza, che non pratica la meditazione
e la contemplazione e che non ha imparato a osservare se stesso nell’azione e
nel silenzio, nella solitudine e nella compagnia, non può decidere cosa
significhi non-aggressione, verità, non accumulare, brahmacharya e non acquisizione!
Queste cinque discipline non possono
essere praticate forzandole su se stessi o imponendole ad altri; la virtù
imposta è costrizione, non virtù. Quando il discernimento o la saggezza prevale
nel tuo cuore e ti fa vedere che c’è una sola indivisibile intelligenza, allora
questi yama diventano naturali per te
e, fino a quando quell’intelligenza interiore rimane indivisa e vigile, nessuna
distrazione può mai sorgere; quello che è descritto negli yama è in realtà quello che accade nella vita di uno yogi la cui
vita è tale: nella sua vita queste qualità si troveranno. Perciò, essere buoni
viene prima e fare il bene è una mera estensione di quell’essere.
(V. il detto di Swami Sivananda: “Be good do good” “Sii buono fai il bene").