Terzo Giorno
CHI HA ESPERIENZA DELLA TRISTEZZA?
CHI HA ESPERIENZA DELLA TRISTEZZA?
Anche
se questa lavagna è bianca, per un momento immaginate che sia nera e che quel
nero sia stato in qualche modo colorato di bianco.
E’
questo che siamo nel sonno profondo: siamo coscienza, la coscienza non può
diventare incoscienza totale; sarebbe assurdo - ma può coprirsi di uno strato
di inconsapevolezza, così come io posso distendermi qui, coprirmi con una
coperta dalla testa ai piedi e fingere di essere un cadavere - ma non lo
sono! Questo è un primo punto: la
coscienza non può mai diventare incoscienza
totale, ma può coprirsi, 'fingere' di esserlo; è questo che succede nello stato
del sonno profondo.
Il
principio successivo da capire sul sonno profondo è che in tale stato tu sei
“uno” con l’intero universo, ma non sei consapevole di esserlo. In realtà non sei consapevole di essere uno
con nessuno, neanche con il tuo stesso corpo! Cosa succede quando ti svegli?
Chiariamo
prima il fatto che anche ora, nello stato di veglia, quando sei consapevole di
determinate cose, sei nello stesso tempo anche tutt'uno con l’intero universo
ma, per quanto riguarda il resto dell’universo e tutto il resto delle
potenzialità nella tua stessa mente, queste sono ancora sotto la coperta. Non è facile capire questo. Se ti chiedi: “Perché non sono consapevole di
un certo mongolo in Siberia?” Sei
conscio ma hai messo una coperta su questa coscienza. Non è incoscienza; la coscienza è
indivisibile, universale in ogni momento.
Vediamo dunque cosa succede al risveglio.
Ti sei coperto di inconsapevolezza quasi dappertutto,
ma ora la consapevolezza comincia ad apparire.
Tutta la lavagna è nera sotto il velo bianco, ed ora un po' del nero
comincia a mostrarsi. Se sei davvero
vigile, molto allerta, se hai meditato e osservato le altre pratiche, allora anche
quando ti svegli ogni mattina sei capace di avere un istante di consapevolezza
in cui non c’è né io, né tu, né lui.
Questo fenomeno è molto simile a quello che avviene ad un neonato che
apre gli occhi per la prima volta, appena partorito dalla madre. Il neonato non si pone neanche la domanda:
“Cos'è questo?” C’è solo la pura
coscienza di aprire gli occhi.
Poiché
nella sostanza indivisibile è sorta un'entità chiamata “io”, un’entità che ha l’esperienza, e la coscienza
sembra fluire, succede qualcosa di molto strano, particolare (perché succeda
non lo so, ma succede; questo è quanto sappiamo).
Quando
la mattina presto, anche quando è ancora buio, accendi la luce, questa, per sua
natura, illumina se stessa, poi manda giù il suo fascio di luce e illumina
tutto ciò che cade sotto il suo raggio d’azione.
La
coscienza (“io” non è altro che questa coscienza) fa sorgere in se stessa una
nozione: "io vedo, io ho esperienza" e, naturalmente, a seconda di
dove questa coscienza è bloccata, secondo a chi è diretta, fa sorgere un “te” o
un “lui”.
C’è
ancora una considerazione: la coscienza fluisce, fluisce finché non va a
toccare quell'oggetto, che è parte di se stessa, o meglio - è se stessa. Questa è l’unica cosa che la mente non può
capire. La coscienza fluisce, fluisce e, incontrando qualcosa che è parte di se
stessa, vi entra. Questo, in modo stupendo,
è espresso in due straordinarie scritture: una in sanscrito e l’altra in ebraico.
Nella upanishad chiamata Taittriya
Upanishad c’è un mantra, la cui traduzione è:
“Avendo creato tutto
ciò, egli entra in esso”
La
stessa cosa avete nella Bibbia:
“Adamo conobbe poi
Eva sua moglie...” (Gen. 4-1)
Quello
in cui non entri, non lo conosci. Non
conosco il registratore; ho delle nozioni sul registratore, ma uno che è
"entrato" in esso, il tecnico che lo ha costruito sa tutto di questo
apparecchio; è lui che conosce, io non so. Non so neanche che è un registratore:
mi sembra che lo sia, quando lo guardo.
Conoscere
è entrare dentro. Se vuoi conoscere te stesso devi entrare nella mente,
dentro ogni aspetto della mente, allora puoi dire: - si, questo lo conosco
- fino a quel momento non sai, stai soltanto tirando a indovinare.
Cosa
succede se l”io” ha bisogno del “tu”, ad esempio di un grande amico o un'amica
che l”io” non vedeva da tanto tempo?
L”io” e il “tu” si avvicinano e si abbracciano! - Oh, ciao!!! - Al primo incontro ci si abbraccia sempre, più
in là forse no; in quel momento d'estasi io voglio perdermi nell’altro, voglio
che non ci sia spazio tra noi due, perché non c’è effettivamente spazio
tra noi due.
Non
c’è spazio: è un flusso unico, continuo.
In quel momento, nel momento dell’incontro, non c’è il pensiero che io
ti ami e che sia contento d'incontrarti, non ci sono proprio pensieri; perciò
sei felice, beato. Appena questo è
avvenuto però, cominci a dire: “Io
sono contento di aver incontrato te”.
Quell’unità viene divisa; tu diventi tu, io divento io.
Si crea uno spazio (kham in sanscrito). Per
cominciare “io sono contento” ("su"
in sanscrito, da cui sukham) e,
per un po', io gratto la tua schiena e tu la mia: anche tu vivi questo alone di
felicità intorno a te.
Poi,
gradualmente, cominciamo a vedere altri aspetti l’uno dell’altro... Questo spazio intorno, un po' alla volta
diventa dukham (infelicità). Lo stesso spazio che tu stesso, inutilmente,
sfortunatamente hai creato, è soggetto ad un cambiamento.
“Io”
ora pensa che la tua ragion d’essere in questo mondo sia di far piacere a me -
ahi! Perché “tu” esiste? Per la mia utilità!
Per
riempire il mio spazio di felicità; quella felicità viene da te, la tua funzione
è di rendere me felice: se non mi rendi felice, comincio a odiarti. Ecco “dukham”
che ha inizio. Questo dukham riempie
tutto il mio spazio e aumenta la separazione tra noi due. In quel momento forse cerchi di trovare un
nuovo rapporto con un'altra persona, pensando che questa sia la causa della tua
infelicità e quella sarà la fonte della tua felicità. Siccome però hai avuto esperienza
dell’infelicità, come di qualcosa che venga dall’esterno, prima o poi, anche da
quest'altro avrai esperienza
dell’infelicità.
Lo
spazio stesso che porti intorno a te è inquinato, e vai in giro a cercare un
ambiente pulito: non è possibile.
Un
po' per via del cambiamento, dato che hai già stabilito che questa persona ti
renderà felice, pensi solo agli "aspetti" felici di questa nuova
relazione; in questo modo sei felice e pensi che la felicità venga dall’altra
persona. Ma il dukham in te non è andato
via, per cui diventi di nuovo infelice.
Questo gioco va avanti finché, per grazia divina, (questo è l’unico
punto in cui userei questa espressione) cominci a guardare dentro di te: “Sono
io che sono felice o infelice di
essere a contatto con questo “tu” ... allora la felicità o l'infelicità che
sento è in me, non in te!”
Io sono infelice, tu sei
completamente al di fuori della mia infelicità.
“Io sono infelice”. Quando
comincio ad investigare dentro questo fenomeno, l’attenzione che fluiva verso
l’esterno comincia a rivolgersi dentro.
La stessa consapevolezza (che fluiva verso di
te facendomi sentire come se tu fossi la sorgente della mia felicità o
infelicità) ora investiga. L’inizio di
questa investigazione è il momento in cui smetto di dire che tu sei la causa
della mia felicità o infelicità. La
prima domanda è: “Chi ha esperienza di questa angoscia? - Me”. Perché dovrei attribuirla a un altro? Devo rendermi conto di dov'è quest'angoscia, in modo che possa trattare con essa.
Stranamente,
questo me lo chiedo nel caso di un tumore maligno o di un’altra grave malattia
ma non voglio farlo nei rapporti con gli altri.
Se ho un cancro dolorosissimo alla gola, invece di sedermi a dir male a
questo cancro, prendo una pillola per addormentarmi, per andare nel reame
dell’inconscio che, secondo la mia terminologia, vuol dire andare dentro se stessi a trovare
uno spazio che non sia inquinato da questo cancro.
Possiamo guardarlo a questo modo?
Non posso né tagliarmi la gola, né in qualche modo vendicarmi contro
questa malattia; allora, per mezzo di una pillola o di un’iniezione, riesco ad
andare dentro di me, a trovare dello spazio non inquinato da questa
infelicità. Perché non dovremmo fare questo,
quando si tratta dell'infelicità nel rapporto con gli altri? L’inizio della saggezza yogica è allora
rendermi conto che è il mio stesso spazio ad essere inquinato e quindi devo
esaminare quello che chiamo “me”.
Può
darsi che la sofferenza sia inerente al "me"; può darsi che ci sia un
punto dove questa tristezza possa finire; non faccio nessuna assunzione,
vado semplicemente ad
investigare il "me".
Mentre
l’attenzione passa da te a me, non creo alcuna divisione, perché non penso che
la mia infelicità venga da te. Quando
questa consapevolezza comincia a tornare, c’è un flusso singolo e costante di
attenzione verso il sé: questo è chiamato “brahmacharya” (il significato tradizionale castità è solo incidentale ad esso).
L’attenzione
totale è focalizzata sulla sorgente di quest'esperienza.
Allora
ci accorgiamo che lo stesso problema sorge ma in modo diverso. Il “tu” è stato
considerato irrilevante in questa investigazione: io sono quello che ha
l’esperienza della felicità, io sono quello che sente l’angoscia; l’‘io’ sente
felicità in tua compagnia e dolore in compagnia di un altro. “Io” ha esperienza di felicità in certe
condizioni, quando lo spazio intorno è soggetto ad alcune trasformazioni, e ha
esperienza di infelicità in altre situazioni: il “tu” è stato evitato, ma lo
spazio dell’io è lì.
La
consapevolezza si muove in un'altra direzione: non sto investigando te, sto
investigando me stesso...sto investigando me stesso...com'è possibile che io
abbia esperienza di qualcosa in me stesso? Sono forse schizofrenico? Come si guarda a se stessi? Che cosa significa? Questo è certamente un po' più
difficile. E’ a causa di questa
difficoltà che gli yogi inventarono un milione di metodi: un mantra
(formula), un disegno, un'immagine, una luce, una candela, un fiore,
un mala (rosario), un mandala
(figura geometrica)... Tutti
questi mezzi sono stati adottati per far in modo che si possa guardare a se
stessi, prima di tutto per scoprire la presenza di una divisione: una divisione che crea l’illusione
di un’esperienza che sia separata dal sé.
Nel sonno quella divisione non esiste; nel sonno non c’è neanche
coscienza di dormire.
Questo processo di dualità è stato dipinto di romanticismo dai filosofi orientali, con l’asserzione che dio abbia creato la diversità, il mondo, per vedere soddisfatta la sua onnipotenza. Se volete potete anche accettare quest'affermazione. Se portiamo l’indagine più vicina a noi, possiamo chiederci: perché c’é il risveglio? Perché ci svegliamo? Ci sono varie risposte che si possono dare a questa domanda. Una possibilità suggerita è che nel sonno siamo pacifici, beati ma non ne siamo consci: volendo diventare consapevoli di quello stato meraviglioso di pace e beatitudine, volendone avere esperienza, ci svegliamo. Ecco che per il resto della giornata cerchiamo quella pace, andiamo alla ricerca di quella felicità in altri oggetti; non la troviamo e quindi di nuovo ci addormentiamo.
Lo
yogi vuole scoprire un metodo, per mezzo del quale, questa divisione nella
coscienza dentro di sé possa aver fine.
Questa fine non verrà certo pensando che debba avvenire, sforzandosi di
porre fine ad essa: tutti questi sforzi sono inutili...perché questa
divisione non esiste, non è reale.
Quando una cosa non esiste, cercare di porre termine ad essa vuol
dire crearla. Se però, la divisione
la neghiamo direttamente, neanche avremo successo: questo perché io ho
esperienza di essa. Questa divisione la
viviamo continuamente nelle esperienze con un soggetto ed un oggetto del tipo:
"io ho esperienza di piacere, io ho esperienza di dolore". Ambedue queste sono divisioni.
Gli
yogi hanno usato sia il piacere, sia il dolore come incentivi per la
meditazione. Da un lato abbiamo alcuni
di un certo ramo del tantra yoga che indulgono nei piaceri:
“Bevi, godi, godi del sesso...e, nello stesso tempo, medita per scoprire dove
sorge questo senso di piacere”.
All'altro
estremo (questo lo abbiamo visto noi stessi): un letto di chiodi - siediti sul
quel letto di chiodi, torturati, infliggiti dolore - ora scopri dove sorge
l’esperienza del dolore.
In
pratica si è visto che il piacere fa fluire la mente verso l’esterno, verso
l’oggetto del piacere; il dolore invece dirige la mente verso di te; non so
perché. Forse uno psicologo lo saprebbe.
L’ho
sperimentato in me stesso ed in altri: quando c’è godimento ci si guarda l’un
l’altro, quando c'è dolore si chiudono gli occhi, ci si vuole isolare
dall'esterno. Il dolore dirige la mente
sempre verso se stessa, il piacere, in qualche modo distrae sempre l’attenzione,
ma ogni esperienza determina una divisione interna; per questo uso un mantra, uso una formula che ripeto
interiormente: “Io ripeto, io ascolto”.
Sto
ripetendo il mantra, o sto ascoltando il mantra? Uno lo dice, l’altro lo ascolta; questo
ascolta, quello ripete... Prima potevo
almeno incolpare te per la divisione esistente: tu parlavi, io ascoltavo, qui invece
non ho nessuno da incolpare. O sono
schizofrenico, pazzo o...non so cosa sta succedendo... Se ripeto il mantra, non posso essere quello
che l'ascolta... se sento il mantra, allora qualcun altro lo sta dicendo. Quando questo fenomeno è investigato,
all'improvviso la polarizzazione scompare.
Non
c’è né chi dice il mantra, né chi ascolta il mantra: c’è semplicemente il
mantra! Il suono del mantra o, più
profondamente, una consapevolezza del suono del mantra.
Il
mantra viene sentito, ma non c’è un'entità che ascolti e sia distinta dal suono
del mantra, così come non c’è uno che ripeta il mantra, che dica il
mantra. Allora, con questa
realizzazione, è possibile che ogni
esperienza diventi un’esperienza totale, senza la divisione tra l’esperienza e
chi ha l’esperienza. Allora
c’è la conoscenza nella quale non c’è la divisione “io - conosco - te”.
Solo
quando questa divisione scompare, uno può sapere, conoscere... (ma neanche
conoscere “l’altro”). So che io esisto,
ma questa esistenza, questa conoscenza è indipendente dall'idea di "me". Quando "me" sorge, crea uno spazio
intorno a sé e comincia ad accumulare esperienze - ancora esperienze divise:
esperienze felici, esperienze tristi...
Tutte
queste, come un processo di cristallizzazione, si raccolgono in questo spazio
chiamato “me” e formano quello che chiamo me o io. Il “me” non è altro che la memoria di
esperienze passate.
Ma
queste esperienze che si raggruppano, formano forse qualcosa di solido chiamato
“me”? No! Perché lo spazio è indivisibile, la
coscienza, la consapevolezza è indivisibile - perciò c'è la possibilità di
tornare di nuovo al sonno: la memoria non ti impedisce di tornare al sonno.
Il
fenomeno del me è stato trascurato, non è stato investigato, perciò sembra essere
reale. Il “me” o “io” sembra così reale,
perché non abbiamo mai investigato per vedere di cosa stiamo effettivamente
parlando!
Nel
momento in cui cominci a investigare, vedi che tutto ha il suo cardine in “me”,
e che il “me” ha accumulato esperienze di ogni tipo, messe insieme
nell'ignoranza. Il soggetto dell'esperienza
è entrato in scena a causa di una sola esperienza - io sono - nello
svegliarsi ha detto: “io sono”.
Sei
apparso davanti a me, anche dopo che nel sonno ho ignorato la tua presenza, e io
mi sento felice, felice! Questa felicità
continua ad essere legata a questo primo pensiero chiamato “io”, e produce
“me”. L’io si trasforma in me - me è la
memoria (me-moria).
Questo
è quel me che continua a giudicare le esperienze della giornata, separandone
alcune come ‘dolore’, altre come ‘piacere’, alcune come ‘buone’, altre come
‘cattive’; giorno dopo giorno continuiamo a identificarci con questo “io”. Non investighiamo sul fenomeno di base: -
cos'è successo all’inizio...non milioni di anni fa, ma
stamattina!?
Non
abbiamo da investigare altro che la prima cosa che è successa questa mattina,
al momento del risveglio. Questo è
tutto, questa è tutta l’investigazione che ci è richiesta. Perciò è importante meditare subito, appena
svegli la mattina. Quando è stato creato
il mondo? Stamattina! Se sai come il mondo è sorto stamattina alle
cinque, alle sei, allora sai come il mondo è venuto ad esistere cinquanta
milioni di anni fa. Senza capire come è
sorto il mondo stamattina, è quasi ridicolo, è stupido investigare qualcosa che
è successo milioni di anni fa.
Come
è sorto il mondo stamattina nella coscienza?
Ecco che ti avvicini faccia a faccia con il fatto che quella che si è
svegliata questa mattina è la memoria: una consapevolezza, io, e la
memoria. “citta” è memoria. Questa
banca della memoria è tutto ciò che funziona ma, quando stamattina mi sono
svegliato, mi sono ricordato che stavo in Francia, al Centro Yoga di Aruna...memoria. Memoria - chi ricorda la memoria? - la memoria
ricorda altra memoria! La memoria si accumula
sulla memoria. Hai un'esperienza e la
chiami "piacere"; hai un’altra esperienza, che è in un certo modo
collegata all’altra e allora dici: “Questa è bella quasi quanto l’altra...non è
peggiore". Fai un paragone; c’è associazione con la memoria precedente.
Questo
processo forma un insieme sempre più grande: questo insieme è chiamato
“me”. Grazie a dio (mi dispiace usare il
nome di nuovo) è
possibile cancellare tutto questo! E’ possibile ridare al quadro il suo colore
originale: perché non ha mai perso quel colore.
Domanda: Se qualcuno, a causa di un
incidente, perde la memoria, perde anche l’idea del “me”? Se è così, perché continua ad essere infelice
e così via?
Swamiji:
Proprio perché la memoria non è completamente perduta. Chi è quello che
è infelice? E’ parte di quella
memoria. Dicono che persino un saggio
illuminato deve fare molta attenzione, fino alla fine dell’esistenza fisica,
perché fino ad allora, resta in lui una certa "memoria assopita”. Ci sono delle bellissime illustrazioni per
descrivere questa possibilità.
In linguaggio odierno possiamo
prendere l’esempio di una lampada a gas, che forse molti di voi hanno
visto. Nella lampada a gas c’è una
piccola rete intorno alla quale si forma la fiamma. di seta o di altro tessuto. All’inizio questa calza è solida, consistente
e anche resistente; quando si accende la fiamma, la rete brucia e, se si fa
attenzione a non toccarla, essa può ardere e far funzionare la lampada per
molto tempo ma, se la si tocca appena...si disintegra. Quella seta si è bruciata ma mantiene
l’apparenza della rete della lampada: l’apparenza, finché c’è, puoi usarla ma,
se vai a provare la sua consistenza, se la tocchi, non è che cenere.
Similmente, nella persona
illuminata un certo residuo della memoria continua ad esistere, finché il corpo
non si sarà completamente dissociato dallo spirito - finché l’idea del corpo
non è completamente sparita. Se ciò
fosse già accaduto, perché allora la mano prende del cibo e lo mette in questa
bocca invece che in un’altra? Questo
mostra che un po' di nebbia è ancora rimasta ma non è potente abbastanza da
ingannarlo.
[A
questo punto Swamiji prende una coperta a strisce]
Potete guardare le strisce nere o
le strisce bianche. Dipende dalla vostra
attenzione. Ma, se siete stati voi a
disegnare questa coperta, con le quattro linee nere, sapete che le linee
bianche non sono state disegnate: solo le strisce nere sono state disegnate -
quelle bianche sono nella tua immaginazione; ad un’altra persona invece, a
volte possono sembrare più reali le strisce bianche, a volte le nere.
C’è confusione in chi non sa - quella
confusione scompare nella persona che sa: l’apparenza non inganna la persona
illuminata.
Eppure, anche nella persona
illuminata, quel “me” continua ad esistere, benché ormai sterile; quell'apparenza
di “me”, nella persona illuminata non è che una conchiglia vuota.