Seminario a Parigi, Marzo 1982 III


Terzo Giorno

CHI HA ESPERIENZA DELLA TRISTEZZA?

Anche se questa lavagna è bianca, per un momento immaginate che sia nera e che quel nero sia stato in qualche modo colorato di bianco. 

E’ questo che siamo nel sonno profondo: siamo coscienza, la coscienza non può diventare incoscienza totale; sarebbe assurdo - ma può coprirsi di uno strato di inconsapevolezza, così come io posso distendermi qui, coprirmi con una coperta dalla testa ai piedi e fingere di essere un cadavere - ma non lo sono!  Questo è un primo punto: la coscienza non può mai diventare  incoscienza totale, ma può coprirsi, 'fingere' di esserlo; è questo che succede nello stato del sonno profondo.

Il principio successivo da capire sul sonno profondo è che in tale stato tu sei “uno” con l’intero universo, ma non sei consapevole di esserlo.  In realtà non sei consapevole di essere uno con nessuno, neanche con il tuo stesso corpo!  Cosa succede quando ti svegli?
Chiariamo prima il fatto che anche ora, nello stato di veglia, quando sei consapevole di determinate cose, sei nello stesso tempo anche tutt'uno con l’intero universo ma, per quanto riguarda il resto dell’universo e tutto il resto delle potenzialità nella tua stessa mente, queste sono ancora sotto la coperta.  Non è facile capire questo.  Se ti chiedi: “Perché non sono consapevole di un certo mongolo in Siberia?”  Sei conscio ma hai messo una coperta su questa coscienza.  Non è incoscienza; la coscienza è indivisibile, universale in ogni momento.  Vediamo dunque cosa succede al risveglio.



 Ti sei coperto di inconsapevolezza quasi dappertutto, ma ora la consapevolezza comincia ad apparire.  Tutta la lavagna è nera sotto il velo bianco, ed ora un po' del nero comincia a mostrarsi.  Se sei davvero vigile, molto allerta, se hai meditato e osservato le altre pratiche, allora anche quando ti svegli ogni mattina sei capace di avere un istante di consapevolezza in cui non c’è né io,  né tu,  né lui.  Questo fenomeno è molto simile a quello che avviene ad un neonato che apre gli occhi per la prima volta, appena partorito dalla madre.  Il neonato non si pone neanche la domanda: “Cos'è questo?”  C’è solo la pura coscienza di aprire gli occhi.
In seguito, in qualche modo, da questa coscienza sorge “Io vedo”.
Poiché nella sostanza indivisibile è sorta un'entità chiamata “io”,  un’entità che ha l’esperienza, e la coscienza sembra fluire, succede qualcosa di molto strano, particolare (perché succeda non lo so, ma succede; questo è quanto sappiamo). 


Quando la mattina presto, anche quando è ancora buio, accendi la luce, questa, per sua natura, illumina se stessa, poi manda giù il suo fascio di luce e illumina tutto ciò che cade sotto il suo raggio d’azione. 

La coscienza (“io” non è altro che questa coscienza) fa sorgere in se stessa una nozione: "io vedo, io ho esperienza" e, naturalmente, a seconda di dove questa coscienza è bloccata, secondo a chi è diretta, fa sorgere un “te” o un “lui”.


C’è ancora una considerazione: la coscienza fluisce, fluisce finché non va a toccare quell'oggetto, che è parte di se stessa, o meglio - è se stessa.  Questa è l’unica cosa che la mente non può capire. La coscienza fluisce, fluisce e, incontrando qualcosa che è parte di se stessa, vi entra.   Questo, in modo stupendo, è espresso in due straordinarie scritture: una in sanscrito e l’altra in ebraico. Nella upanishad chiamata Taittriya Upanishad c’è un mantra, la cui traduzione è:

“Avendo creato tutto ciò, egli entra in esso”             
La stessa cosa avete nella Bibbia:
“Adamo conobbe poi Eva sua moglie...”   (Gen. 4-1)

Quello in cui non entri, non lo conosci.  Non conosco il registratore; ho delle nozioni sul registratore, ma uno che è "entrato" in esso, il tecnico che lo ha costruito sa tutto di questo apparecchio; è lui che conosce, io non so. Non so neanche che è un registratore: mi sembra che lo sia, quando lo guardo.
Conoscere è entrare dentro. Se vuoi conoscere te stesso devi entrare nella mente, dentro ogni aspetto della mente, allora puoi dire: - si, questo lo conosco - fino a quel momento non sai, stai soltanto tirando a indovinare.

Cosa succede se l”io” ha bisogno del “tu”, ad esempio di un grande amico o un'amica che l”io” non vedeva da tanto tempo?  L”io” e il “tu” si avvicinano e si abbracciano!  - Oh, ciao!!! -  Al primo incontro ci si abbraccia sempre, più in là forse no; in quel momento d'estasi io voglio perdermi nell’altro, voglio che non ci sia spazio tra noi due, perché non c’è effettivamente spazio tra noi due.
Non c’è spazio: è un flusso unico, continuo.  In quel momento, nel momento dell’incontro, non c’è il pensiero che io ti ami e che sia contento d'incontrarti, non ci sono proprio pensieri; perciò sei felice, beato.  Appena questo è avvenuto però, cominci a  dire: Io sono contento di aver incontrato te.  Quell’unità viene divisa; tu diventi tu, io divento io.

  Si crea uno spazio (kham in sanscrito).  Per cominciare “io sono contento” ("su" in sanscrito, da cui sukham) e, per un po', io gratto la tua schiena e tu la mia: anche tu vivi questo alone di felicità intorno a te. 
Poi, gradualmente, cominciamo a vedere altri aspetti l’uno dell’altro...  Questo spazio intorno, un po' alla volta diventa dukham (infelicità).  Lo stesso spazio che tu stesso, inutilmente, sfortunatamente hai creato, è soggetto ad un cambiamento.

“Io” ora pensa che la tua ragion d’essere in questo mondo sia di far piacere a me - ahi!  Perché “tu” esiste?  Per la mia utilità!
Per riempire il mio spazio di felicità; quella felicità viene da te, la tua funzione è di rendere me felice: se non mi rendi felice, comincio a odiarti.  Ecco “dukham” che ha inizio. Questo dukham riempie tutto il mio spazio e aumenta la separazione tra noi due.  In quel momento forse cerchi di trovare un nuovo rapporto con un'altra persona, pensando che questa sia la causa della tua infelicità e quella sarà la fonte della tua felicità.  Siccome però hai avuto esperienza dell’infelicità, come di qualcosa che venga dall’esterno, prima o poi, anche da quest'altro  avrai esperienza dell’infelicità.
Lo spazio stesso che porti intorno a te è inquinato, e vai in giro a cercare un ambiente pulito: non è possibile.

Un po' per via del cambiamento, dato che hai già stabilito che questa persona ti renderà felice, pensi solo agli "aspetti" felici di questa nuova relazione; in questo modo sei felice e pensi che la felicità venga dall’altra persona.  Ma il dukham  in te non è andato via, per cui diventi di nuovo infelice.  Questo gioco va avanti finché, per grazia divina, (questo è l’unico punto in cui userei questa espressione) cominci a guardare dentro di te: “Sono io  che sono felice o infelice di essere a contatto con questo “tu” ... allora la felicità o l'infelicità che sento è in me, non in te!”

Io sono infelice, tu sei completamente al di fuori della mia infelicità.  Io sono infelice”.  Quando comincio ad investigare dentro questo fenomeno, l’attenzione che fluiva verso l’esterno comincia a rivolgersi dentro.

 La stessa consapevolezza (che fluiva verso di te facendomi sentire come se tu fossi la sorgente della mia felicità o infelicità) ora investiga.  L’inizio di questa investigazione è il momento in cui smetto di dire che tu sei la causa della mia felicità o infelicità.  La prima domanda è: “Chi ha esperienza di questa angoscia? - Me”.  Perché dovrei attribuirla a un altro?  Devo rendermi conto di dov'è quest'angoscia, in modo che possa trattare con essa.
Stranamente, questo me lo chiedo nel caso di un tumore maligno o di un’altra grave malattia ma non voglio farlo nei rapporti con gli altri.  Se ho un cancro dolorosissimo alla gola, invece di sedermi a dir male a questo cancro, prendo una pillola per addormentarmi, per andare nel reame dell’inconscio che, secondo la mia terminologia, vuol dire andare dentro se stessi a trovare uno spazio che non sia inquinato da questo cancro.  Possiamo guardarlo a questo modo?  Non posso né tagliarmi la gola, né in qualche modo vendicarmi contro questa malattia; allora, per mezzo di una pillola o di un’iniezione, riesco ad andare dentro di me, a trovare dello spazio non inquinato da questa infelicità.  Perché non dovremmo fare questo, quando si tratta dell'infelicità nel rapporto con gli altri?  L’inizio della saggezza yogica è allora rendermi conto che è il mio stesso spazio ad essere inquinato e quindi devo esaminare quello che chiamo “me”.
Può darsi che la sofferenza sia inerente al "me"; può darsi che ci sia un punto dove questa tristezza possa finire; non faccio nessuna assunzione, vado semplicemente ad investigare il "me".
Mentre l’attenzione passa da te a me, non creo alcuna divisione, perché non penso che la mia infelicità venga da te.  Quando questa consapevolezza comincia a tornare, c’è un flusso singolo e costante di attenzione verso il sé: questo è chiamato “brahmacharya”  (il significato tradizionale castità è solo incidentale ad esso).
L’attenzione totale è focalizzata sulla sorgente di quest'esperienza.

Allora ci accorgiamo che lo stesso problema sorge ma in modo diverso. Il “tu” è stato considerato irrilevante in questa investigazione: io sono quello che ha l’esperienza della felicità, io sono quello che sente l’angoscia; l’‘io’ sente felicità in tua compagnia e dolore in compagnia di un altro.  “Io” ha esperienza di felicità in certe condizioni, quando lo spazio intorno è soggetto ad alcune trasformazioni, e ha esperienza di infelicità in altre situazioni: il “tu” è stato evitato, ma lo spazio dell’io è lì.

La consapevolezza si muove in un'altra direzione: non sto investigando te, sto investigando me stesso...sto investigando me stesso...com'è possibile che io abbia esperienza di qualcosa in me stesso?  Sono forse schizofrenico?  Come si guarda a se stessi?  Che cosa significa?  Questo è certamente un po' più difficile.  E’ a causa di questa difficoltà che gli yogi inventarono un milione di metodi: un mantra  (formula), un disegno, un'immagine, una luce, una candela, un fiore, un mala (rosario), un mandala  (figura geometrica)...  Tutti questi mezzi sono stati adottati per far in modo che si possa guardare a se stessi, prima di tutto per scoprire la presenza di una divisione: una divisione che crea l’illusione di un’esperienza che sia separata dal sé.  Nel sonno quella divisione non esiste; nel sonno non c’è neanche coscienza di dormire.




Questo processo di dualità è stato dipinto di romanticismo dai filosofi orientali, con l’asserzione che dio abbia creato la diversità, il mondo, per vedere soddisfatta la sua onnipotenza.  Se volete potete anche accettare quest'affermazione.  Se portiamo l’indagine più vicina a noi, possiamo chiederci: perché c’é il risveglio? Perché ci svegliamo?  Ci sono varie risposte che si possono dare a questa domanda. Una possibilità suggerita è che nel sonno siamo pacifici, beati ma non ne siamo consci: volendo diventare consapevoli di quello stato meraviglioso di pace e beatitudine, volendone avere esperienza, ci svegliamo.  Ecco che per il resto della giornata cerchiamo quella pace, andiamo alla ricerca di quella felicità in altri oggetti; non la troviamo e quindi di nuovo ci addormentiamo.

Lo yogi vuole scoprire un metodo, per mezzo del quale, questa divisione nella coscienza dentro di sé possa aver fine.  Questa fine non verrà certo pensando che debba avvenire, sforzandosi di porre fine ad essa: tutti questi sforzi sono inutili...perché  questa  divisione non esiste, non è reale.  Quando una cosa non esiste, cercare di porre termine ad essa vuol dire crearla.  Se però, la divisione la neghiamo direttamente, neanche avremo successo: questo perché io ho esperienza di essa.  Questa divisione la viviamo continuamente nelle esperienze con un soggetto ed un oggetto del tipo: "io ho esperienza di piacere, io ho esperienza di dolore".  Ambedue queste sono divisioni.

Gli yogi hanno usato sia il piacere, sia il dolore come incentivi per la meditazione.  Da un lato abbiamo alcuni di un certo ramo del  tantra yoga che indulgono nei piaceri: “Bevi, godi, godi del sesso...e, nello stesso tempo, medita per scoprire dove sorge questo senso di piacere”.
All'altro estremo (questo lo abbiamo visto noi stessi): un letto di chiodi - siediti sul quel letto di chiodi, torturati, infliggiti dolore - ora scopri dove sorge l’esperienza del dolore.

In pratica si è visto che il piacere fa fluire la mente verso l’esterno, verso l’oggetto del piacere; il dolore invece dirige la mente verso di te; non so perché.  Forse uno psicologo lo saprebbe.
L’ho sperimentato in me stesso ed in altri: quando c’è godimento ci si guarda l’un l’altro, quando c'è dolore si chiudono gli occhi, ci si vuole isolare dall'esterno.  Il dolore dirige la mente sempre verso se stessa, il piacere, in qualche modo distrae sempre l’attenzione, ma ogni esperienza determina una divisione interna; per questo uso un mantra, uso una formula che ripeto interiormente:  “Io ripeto, io ascolto”.


Sto ripetendo il mantra, o sto ascoltando il mantra?  Uno lo dice, l’altro lo ascolta; questo ascolta, quello ripete...  Prima potevo almeno incolpare te per la divisione esistente: tu parlavi, io ascoltavo, qui invece non ho nessuno da incolpare.  O sono schizofrenico, pazzo o...non so cosa sta succedendo...  Se ripeto il mantra, non posso essere quello che l'ascolta... se sento il mantra, allora qualcun altro lo sta dicendo.  Quando questo fenomeno è investigato, all'improvviso la polarizzazione scompare.
Non c’è né chi dice il mantra, né chi ascolta il mantra: c’è semplicemente il mantra!  Il suono del mantra o, più profondamente, una consapevolezza del suono del mantra.
Il mantra viene sentito, ma non c’è un'entità che ascolti e sia distinta dal suono del mantra, così come non c’è uno che ripeta il mantra, che dica il mantra.  Allora, con questa realizzazione, è possibile che ogni esperienza diventi un’esperienza totale, senza la divisione tra l’esperienza e chi ha l’esperienza. Allora c’è la conoscenza nella quale non c’è la divisione “io - conosco - te”.

Solo quando questa divisione scompare, uno può sapere, conoscere... (ma neanche conoscere “l’altro”).  So che io esisto, ma questa esistenza, questa conoscenza è indipendente dall'idea di "me".  Quando "me" sorge, crea uno spazio intorno a sé e comincia ad accumulare esperienze - ancora esperienze divise: esperienze felici, esperienze tristi...
Tutte queste, come un processo di cristallizzazione, si raccolgono in questo spazio chiamato “me” e formano quello che chiamo me o io.  Il “me” non è altro che la memoria di esperienze passate.
Ma queste esperienze che si raggruppano, formano forse qualcosa di solido chiamato “me”?  No!  Perché lo spazio è indivisibile, la coscienza, la consapevolezza è indivisibile - perciò c'è la possibilità di tornare di nuovo al sonno: la memoria non ti impedisce di tornare al sonno.

Il fenomeno del me è stato trascurato, non è stato investigato, perciò sembra essere reale.  Il “me” o “io” sembra così reale, perché non abbiamo mai investigato per vedere di cosa stiamo effettivamente parlando!
Nel momento in cui cominci a investigare, vedi che tutto ha il suo cardine in “me”, e che il “me” ha accumulato esperienze di ogni tipo, messe insieme nell'ignoranza.  Il soggetto dell'esperienza è entrato in scena a causa di una sola esperienza - io sono - nello svegliarsi ha detto: “io sono”.

Sei apparso davanti a me, anche dopo che nel sonno ho ignorato la tua presenza, e io mi sento felice, felice!  Questa felicità continua ad essere legata a questo primo pensiero chiamato “io”, e produce “me”.  L’io si trasforma in me - me è la memoria (me-moria).
Questo è quel me che continua a giudicare le esperienze della giornata, separandone alcune come ‘dolore’, altre come ‘piacere’, alcune come ‘buone’, altre come ‘cattive’; giorno dopo giorno continuiamo a identificarci con questo “io”.  Non investighiamo sul fenomeno di base: - cos'è successo all’inizio...non milioni di anni fa, ma stamattina!?

Non abbiamo da investigare altro che la prima cosa che è successa questa mattina, al momento del risveglio.  Questo è tutto, questa è tutta l’investigazione che ci è richiesta.  Perciò è importante meditare subito, appena svegli la mattina.  Quando è stato creato il mondo?  Stamattina!  Se sai come il mondo è sorto stamattina alle cinque, alle sei, allora sai come il mondo è venuto ad esistere cinquanta milioni di anni fa.  Senza capire come è sorto il mondo stamattina, è quasi ridicolo, è stupido investigare qualcosa che è successo milioni di anni fa.
Come è sorto il mondo stamattina nella coscienza?  Ecco che ti avvicini faccia a faccia con il fatto che quella che si è svegliata questa mattina è la memoria: una consapevolezza, io, e la memoria.  “citta” è memoria.  Questa banca della memoria è tutto ciò che funziona ma, quando stamattina mi sono svegliato, mi sono ricordato che stavo in Francia, al Centro Yoga di Aruna...memoria.  Memoria - chi ricorda la memoria? - la memoria ricorda altra memoria!  La memoria si accumula sulla memoria.  Hai un'esperienza e la chiami "piacere"; hai un’altra esperienza, che è in un certo modo collegata all’altra e allora dici: “Questa è bella quasi quanto l’altra...non è peggiore". Fai un paragone; c’è associazione con la memoria precedente.
Questo processo forma un insieme sempre più grande: questo insieme è chiamato “me”.  Grazie a dio (mi dispiace usare il nome di nuovo) è possibile cancellare tutto questo!  E’ possibile ridare al quadro il suo colore originale: perché non ha mai perso quel colore.
Domanda: Se qualcuno, a causa di un incidente, perde la memoria, perde anche l’idea del “me”?  Se è così, perché continua ad essere infelice e così via?
Swamiji:  Proprio perché la memoria non è completamente perduta. Chi è quello che è infelice?  E’ parte di quella memoria.  Dicono che persino un saggio illuminato deve fare molta attenzione, fino alla fine dell’esistenza fisica, perché fino ad allora, resta in lui una certa "memoria assopita”.  Ci sono delle bellissime illustrazioni per descrivere questa possibilità.
In linguaggio odierno possiamo prendere l’esempio di una lampada a gas, che forse molti di voi hanno visto.  Nella lampada a gas c’è una piccola rete intorno alla quale si forma la fiamma. di seta o di altro tessuto.  All’inizio questa calza è solida, consistente e anche resistente; quando si accende la fiamma, la rete brucia e, se si fa attenzione a non toccarla, essa può ardere e far funzionare la lampada per molto tempo ma, se la si tocca appena...si disintegra.  Quella seta si è bruciata ma mantiene l’apparenza della rete della lampada: l’apparenza, finché c’è, puoi usarla ma, se vai a provare la sua consistenza, se la tocchi, non è che cenere.
Similmente, nella persona illuminata un certo residuo della memoria continua ad esistere, finché il corpo non si sarà completamente dissociato dallo spirito - finché l’idea del corpo non è completamente sparita.  Se ciò fosse già accaduto, perché allora la mano prende del cibo e lo mette in questa bocca invece che in un’altra?  Questo mostra che un po' di nebbia è ancora rimasta ma non è potente abbastanza da ingannarlo.

[A questo punto Swamiji prende una coperta a strisce]

Potete guardare le strisce nere o le strisce bianche.  Dipende dalla vostra attenzione.  Ma, se siete stati voi a disegnare questa coperta, con le quattro linee nere, sapete che le linee bianche non sono state disegnate: solo le strisce nere sono state disegnate - quelle bianche sono nella tua immaginazione; ad un’altra persona invece, a volte possono sembrare più reali le strisce bianche, a volte le nere.
C’è confusione in chi non sa - quella confusione scompare nella persona che sa: l’apparenza non inganna la persona illuminata.
Eppure, anche nella persona illuminata, quel “me” continua ad esistere, benché ormai sterile; quell'apparenza di “me”, nella persona illuminata non è che una conchiglia vuota.